La fosfatasi alcalina è un insieme di isoenzimi presenti prevalentemente nelle ossa e nel fegato e in minima parte nell'intestino, nei reni e nella placenta. La sua funzione esatta non è nota eppure fa parte degli esami del sangue che eseguo, adesso annualmente, da quando mi sono ammalata di cancro al seno.
A Natale, ho avuto un forte raffreddore: tosse e starnuti e non finire. Il mio fianco destro ne ha risentito: non riuscivo più a girare il torso e avevo dolore quando tossivo, starnutivo, ridevo, quando mi giravo nel letto e quando premevo in un punto preciso in corrispondenza di una costola. Nonostante sapessi che tosse e starnuti ripetuti possono fare scherzi del genere, il pensiero è corso alla mia mamma e al dolore al fianco destro che con cui si è annunciato il suo cancro al pancreas (attenzione! non è un sintomo tipico: mamma aveva un'infiltrazione del duodeno e per questo forse aveva dolore al fianco destro). In alternativa, temevo una metastasi ossea. I cancro-controlli intanto si avvicinavano. Il dolore pian piano si andava attenuando. Sono partita per Milano riproponendomi di accennare la cosa all'oncologa, ma rincuorata dal miglioramento.
Sono le 13.30. Ho fatto il prelievo del sangue la mattina. Mammografia ed ecografia del seno sono andate bene. Mi resta solo la visita ginecologica per controllare che il mio endometrio ispessito dal tamoxifene non abbia deciso di dare i numeri. I risultati delle analisi del sangue sono un pugno in faccia: la fosfatasi alcalina è fuori range. Di poco, ma in quel momento riesco solo a vedere l'asterisco accanto al numero 150 e a pensare al dolore alla costola. Un rialzo della fosfatasi alcalina può essere indice di metastasi alle ossa. Mentre, impallidita, mi aggiro per il corridoio dell'ospedale senza riuscire a fermarmi, vengo soccorsa da due oncologhe che cercano di rassicurami e incaricano due segretarie di contattare quella che mi segue dalla diagnosi. "È venuta da sola perchè non vuole dare fastidio a nessuno, vero?", mi dice una delle segretarie, e mi abbraccia mentre mi chiedo come fa a saperlo. Dopo pochi minuti, la mia oncologa mi chiama al telefono. Le dico della costola, della fosfatasi. Lei mi dice che potrebbe essere una microfrattura e che il dolore difficilmente sarebbe scemato se si fosse trattato di una metastasi. "Ma la mia mamma aveva dolore al fianco destro. Lo so che finirò come lei". E subito parte il senso di colpa perchè chi sono io per non morire come la mia mamma?!? La dottoressa propone altri esami: l'isoenzima osseo della fosfatasi alcalina per capire se l'aumento del valore è dovuto a qualche alterazione - anche benigna - a livello osseo e i marcatori tumorali.
L'amica adorata che mi ospita a Milano molla il lavoro e mi raggiunge senza che faccia in tempo a chiederglielo. Josè salta sul primo aereo. Sarà una notte lunga. I marcatori li odio. Li immagino schizzati che puntano il dito contro di me. Quando, il giorno successivo, l'oncologa mi dice che sono normali le salto al collo. Il risultato dell'isoenzima, invece, non è ancora pronto. Deve arrivare da un altro ospedale e ci vorrà qualche giorno. La dottoressa mi visita. Preme sulla costola e sento un leggero dolore. L'ipotesi è quella di una microfrattura causata da un colpo di tosse. In questo caso, l'isoenzima risulterà alterato.
Il sollievo per i marcatori nel range non dura molto. Sono sotto shock. Non mi era mai capitato di avere un valore delle analisi del sangue fuori range. Ogni tanto un pò di emoglobina e globuli bianchi bassi, la firma lasciata dalla chemioterapia sul mio midollo osseo ma niente di più. Comincio a leggere tutto quello che riguarda la fosfatasi alcalina. Chiedo nei gruppi di pazienti. Una di loro cerca di rassicurarmi: è capitato anche a lei a causa degli inibitori dell'aromatasi che però io non prendo. Intanto leggo sul bugiardino della venlafaxina a rilascio prolungato - l'antidepressivo che prendo da ottobre 2019, quando la morte del papà di Josè aveva risvegliato il mio disturbo da stress post-traumatico - che tra gli effetti collaterali "non frequenti (1 su 100)" sono riportati "lievi cambiamenti degli enzimi epatici". Cerco su internet altre informazioni sul farmaco e leggo sul sito della Food and Drug Administration che negli studi premarketing dell'Efexor - nome commerciale del farmaco - è indicato tra gli effetti collaterali infrequenti l'aumento della fosfatasi alcalina.
Colpo di scena. L'isoenzima osseo della fosfatasi alcalina risulta nella norma. Il sospetto, a questo punto, si sposta sulla venlafaxina. L'oncologa vuole comunque che ripeta di nuovo l'esame della fosfatasi alcalina ai primi di marzo - per essere sicuri che ci sia effettivamente un aumento e non si sia trattato di una rialzo transitorio - e, solo in caso dovesse essere salita ulteriormente, consiglia di parlarne con lo psichiatra per valutare la sospensione.
La venlafaxina mi ha causato altri problemi in passato. Bastava che dimenticassi di prenderla per un solo giorno e avevo delle crisi di astinenza, che ovviamente non riconoscevo come tali e che mi facevano stare malissimo. Ansia a mille, tachicardia, assenza di appetito, formicolii, giramenti di testa. Ne avevo anche parlato allo psichiatra che aveva pensato a un disturbo d'ansia generalizzato e consigliava di aggiungere la pregabalina all'antidepressivo, cosa che per fortuna ho rifiutato. Invece, una sera in cui stavo così male da meditare di andare in pronto soccorso, mi sono ricordata di aver saltato la dose quotidiana di venlafaxina. La presi e nel giro di un paio d'ore - il tempo di digerirla - iniziai a sentirmi meglio. Un breve giro su internet e social e scoprii l'esistenza di gruppi di supporto zeppi di persone che non riescono a sospenderla perchè provoca sintomi da sospensione molto più forti rispetto agli altri antidepressivi. Lo psichiatra sostieneva, invece, di non aver mai sentito nulla del genere ma mi concesse comunque, lo scorso anno, di iniziare a scalare la dose con l'obiettivo di arrivare alla sospensione. Da 150mg sono arrivata a 75mg in due mesi. E lì sono rimasta ferma fino ad ora.
Informo lo psichiatra dell'aumento della fosfatasi alcalina e del sospetto sulla venlafaxina. Dice che capitano tutte a me e che magari è meglio ripetere l'esame della fosfatasi alcalina dopo 15 giorni invece che dopo un mese come richiesto dall'oncologa. Gli chiedo se pensa che l'aumento della fosfatasi alcalina sia dovuto a un problema oncologico. Mi risponde di non essere un oncologo. Mi concede di scalare ulteriormente la venlafaxina. Il prezzo da pagare è la paura che mi ha rimesso addosso.
Come stai? È una domanda a cui non si risponde facilemente se si vive con una malattia come il cancro. Non lo so. Per il momento, cerco di scacciare il pensiero di dover ripetere le analisi e dover di nuovo aprire i risultati. Non riesco a non immaginare i risultati schizzati che mi puntano il dito contro. Non riesco a non pensare che questi tredici anni potrebbero essere stati solo una tregua. Che niente torna come prima. Che non mi sarei dovuta ammalare a trent'anni. Che se è successo la responsabilità è di chi aveva il dovere di tutelare la mia salute e non l'ha fatto, facendomi finire in un girone infernale di terapie decennali, controlli a vita e farmaci per controllare le tossicità psicologiche del cancro che, a loro volta, provocano altri problemi. Tutto questo se sono "fortunata" e la malattia non si ripresenta. Non c'è niente di bello e di edificante in tutto questo. Sono malata e, in quanto tale, sono una sorvegliata speciale.