di Valentina Bridi
Per tanto tempo ho pensato che nulla mi avrebbe resa più felice di trovarmi qui, dopo cinque anni, a scrivere sono Valentina ho 38 anni e sono passati 5 anni dalla mia Hiroshima. Sto bene.
Ho pensato di poter dimenticare, ho sperato a lungo che come per magia tutto sarebbe tornato come prima.
E invece quella ferita che mi ha squarciato in due é stata talmente brutale, profonda, radicale che la si può addobbare certo, si può imparare ad accettarla e perfino a nasconderla fino al punto di dimenticarsi qualche volta della sua esistenza, ma sarà sempre lì, a ricordare quello che è stato e quello che è perso.
La fatica di sopravvivere a sé stessi.
Sono finita sul blog delle Amazzoni Furiose pochi giorni dopo la mia diagnosi, persa nel mezzo di un racconto collettivo della malattia che non solo non mi apparteneva, ma trovavo offensivo verso quello che stavo vivendo, perché volutamente e colpevolmente parziale ed edulcorato. Nessuno spazio alla fragilità, alla paura, all’angoscia, alla possibilità concreta di non sopravvivere.
Leggevo storie su storie e non capivo dove sbagliassi, perché non riuscissi ad essere positiva, a reagire, a trasformare quello che mi stava accadendo in un piccolo incidente di percorso che avrei superato più forte di prima. Il cancro che ti rende una persona migliore, che ti insegna il valore delle cose, che ti fa apprezzare quello che hai.
Questo tipo di narrazione poi é quasi sempre donna ed é alle donne che viene imposta come unica possibile, pena il silenzio o il giudizio.
Mi chiedevo perché non riuscissi ad indossare il mantello da eroina per sconfiggere quel cancro cattivo magari con un bel sorriso stampato in viso, perché tutto quel rosa che raccontava la mia malattia mi facesse venire il voltastomaco.
Ho capito che la risposta era nella parola consapevolezza, ho avuto fin dal primo momento una consapevolezza estrema non solo del mio cancro e di come sarebbero potute andare le cose, ma anche di quanto poco contasse quello che avrei potuto fare o non fare.
E mi sono fin da subito sentita presa in giro da tutte quelle persone che provavano a tenermi buona raccontandomi di certezze che sapevo bene nessuno potesse avere, nemmeno quando quel qualcuno indossava un camice bianco. Giusto chi abita i piani alti, per chi ci crede.
Quell’andrà tutto bene che tanto va di moda in tempi di coronavirus chi riceve una diagnosi di cancro se lo sente ripetere come un mantra, perché fare i conti con quello che significa davvero, avere un cancro, fa una gran paura e se lo si può evitare lo si evita, ma lo si fa per sé stessi, mica per aiutare chi il cancro ce l'ha per davvero.
La prima psicologa con cui ho parlato a pochi giorni dalla diagnosi mi ripeteva che la stavo facendo troppo grande, di darmi allo yoga, alla cucina senza zuccheri, alla meditazione, alla scrittura creativa. Che il tumore al seno è una malattia di cui non si muore praticamente più, che è il cancro buono, che la chirurgia è talmente orientata alla ricostruzione estetica che nemmeno lo avrei rimpianto il mio seno, che davvero non era quello il modo di affrontare quello che stavo vivendo, che non potevo pensare di guarire se non aiutavo il mio corpo a farlo, che li avrei visti andare all’università i miei figli.
Il mio cancro aveva una proliferazione del 98% (credo di detenere una sorta di record fra gli oncologi a riguardo, visto che il 100% tecnicamante non si è mai visto). La soglia per considerare un tumore al seno aggressivo è una proliferazione superiore al 20%. Un cancro che cresceva letteralmente alla velocità della luce e che se non avesse risposto alle terapie mi avrebbe ammazzata nel giro di pochi mesi, poco più di 30 anni, due bambini piccoli e quello che mi sentivo ripetere da tutti era che ero troppo negativa, che sarebbe andato tutto bene.
Vaffanculo. Sono tornata in vita quando sono riuscita a dire un bel vaffanculo a chi pretendeva di insegnarmi come si doveva stare, in quella merda, come ci si doveva sentire, come si doveva reagire. Quando sono riuscita a dirmi che andavo bene lo stesso, che ero brava ad affrontare tutto, anche se facevo fatica.
Chi mi cammina accanto sa bene che c’è stato un durante e un dopo la malattia fatto di cose belle, di viaggi, di progetti, di speranza, ma non ho mai voluto fosse questo il punto. Celebrare la mia personale storia di malattia, che come tutte continuo a sperare possa essere a lieto fine, non è mai stato e non sarà mai il mio punto.
Avevo una possibilità su 3 di essere morta a 3 anni dalla diagnosi, e di ragazze che sono cadute in quella possibilità ne ho conosciute a decine. Con alcune di loro le nostre vite si sono appena sfiorate, con altre abbiamo condiviso un pezzo di strada e poi c’è stata Valeria che ha cambiato la mia vita per sempre. La sua morte un dolore che ancora faccio fatica a nominare.
Il cancro al seno è una cazzo di roulette russa. Ti curi fai quello che ti dicono e incroci le dita. Se non tocca a te toccherà a qualcun altro e il prezzo del tuo sopravvivere nella giungla delle probabilità che in oncologia diventano prognosi sarà la morte di un'altra persona che ha fatto tutto esattamente come te e probabilmente molto meglio di te.
Finchè tutto sarà affidato al caso, finchè il mio destino e con il mio quello di milioni di donne che ogni anno si ammalano sarà una roulette russa, finchè non esisterà una cura per il cancro al seno e finché non si farà davvero qualcosa per evitare che le donne continuino ad ammalarsi, sempre di più e sempre più giovani, la mia personale storia non conterà nulla e non sarà mai il mio punto.
Qui dentro ho smesso di sentirmi sola e sbagliata, perché quello che uccide quando ci si ammala ancor più della malattia è il senso di solitudine profondo che ci si trova a vivere. Pochi, pochissimi, accettano di guardare in faccia insieme a te quello che una diagnosi di cancro porta con sé. Per paura o per incapacità poco cambia, il risultato è che ci si sente tremendamente sole. E sbagliate.
Incontrare altre donne, leggere parole che finalmente comprendevano anche me, è stato come sentirsi a casa in un momento in cui la mia, di casa, era crollata e tutto quello che vedevo erano solo macerie sparse ovunque. Unire le nostre voci e insieme alzarle l’unico senso che sono riuscita a trovare in quello che mi è successo.
"Fare le brave non serve a niente" diceva Barbara Brenner che grazie a questo blog ho imparato a conoscere ed amare ed é proprio così. Possiamo subire accettando che altri decidano e pensino per noi o possiamo farci sentire, autodeterminandoci. Nella malattia così come nella vita.
“Perciò è meglio parlare, perchè non era previsto che noi sopravvivessimo” (Audre Lorde).
Dio Benedica Le Amazzoni Furiose e le donne e gli uomini che le abitano.