martedì 28 ottobre 2014

L'endometriosi

Sin dalla prima volta, le mestruazioni sono state un tormento per me. Mal di pancia, vomito, svenimenti. Le perdite ematiche si annunciavano con dei crampi fortissimi al basso ventre, sempre piu` frequenti. Come avere un martello pneumatico infilato nel sottopancia che ti smuove ogni muscolo fino a farti contorcere lo stomaco, fino a farti vomitare e poi perdere conoscenza.
Mia madre, allarmata, mi portava dal suo ginecologo. Il tizio ascoltava i miei sintomi e poi prescriveva un'ecografia. "Dobbiamo escludere l'endometriosi", diceva. Che cosa fosse non lo sapevo ne` lui me lo spiegava, ma avevo capito che averla avrebbe significato una gran bella gatta da pelare.
L'endometriosi, c'e` scritto sul sito dell'Associazione Progetto Endometriosi (APE) e` una "malattia complessa, cronica e poco conosciuta, originata dalla presenza anomala del tessuto che riveste la parte interna dell'utero, chiamata endometrio, in altri organi (ad esempio, ovaio, tube, peritoneo, vagina e talvolta anche intestino e vescica)" (qui). In sostanza, ogni mese, in concomitanza con le mestruazioni, questo tessuto che origina dall'endometrio ma si trova altrove sanguina formando cisti, infiammazioni e provoca dolore cronico. Un dolore che puo` essere talmente forte da impedire a chi ne e` colpita di svolgere le normali attivita` quotidiane, incluso andare a lavorare. Nonostante la sua diffusione - circa il 20-25% delle donne in eta` fertile ne soffrono (qui) - la malattia non gode di nessuna forma di riconoscimento. I medici stentano a diagnosticarla perche` se a lamentare dei dolori e` una donna sara` certamente un'isterica rompiscatole con problemi psicologici. Non esiste, inoltre, una legge che tuteli i diritti delle persone colpite, non esistono esenzioni dal pagamento di visite mediche e farmaci, non esiste un registro nazionale che raccolga i dati riguardanti l'estensione della patologia.
Sull'endometriosi da un punto di vista femminista hanno pubblicato recentemente un bellissimo post le Bambole Spettinate e Diavole del Focolare a cui vi rimando (qui). Mi preme aggiungere, tuttavia, qualcosa sulle cause ambientali della malattia. I principali accusati sono infatti gli interferenti endocrini, tra cui il bisfenolo A, presente in pressoche` tutte le materie plastiche (qui), le diossine e i pesticidi (qui). Secondo uno studio italiano del 2009 che ha coinvolto 158 donne esiste una correlazione positiva tra endometriosi ed elevati livelli di PCB e DDT nel sangue. Che aspettiamo a parlarne?

venerdì 17 ottobre 2014

A volte 1+1 fa 11. La storia di Carla e Rupert


Nessuno mi ha mai detto “ fatti forza”, “devi reagire”, più spesso ho ricevuto dei “ non so come fai” o “ sei davvero una roccia”. Io credo nell’affrontare con positività la vita, anche nei suoi aspetti più dolorosi, penso però che sia una dote per buona parte innata, che se messa alla prova da il meglio di sé, potenziandosi. Non mi sono mai posta il problema se fossi o meno una persona forte, finché ho saputo di esserlo perché forse era l’unica alternativa che avevo. Ho però troppo rispetto per il dolore (so bene che dietro a un sorriso, spesso si celano sofferenze e lacrime) per accettare che forza e positività vengano esibiti ed ostentati come trofei di guerra. Troppo spesso sui social media appaiono link che incitano ed esibiscono gioia di vivere, mostrando e rappresentando il cancro come qualcosa di bello e determinante per la crescita di ognuno di noi, ottenendo un messaggio comunicativo paradossale, se non ridicolo: “evita di ammalarti di cancro, previenilo, se però lo prendi, non preoccuparti, è un’esperienza di vita fondamentale!”. Messaggi e foto (seni attraenti e sexy, giovani e belle donne calve e felici) che provocano ogni volta in me un senso di rabbia impotente e di violenza gratuita subita.

Dico questo perché la mia storia, anzi la nostra, mia e di mio marito, è una storia di malattia, di fatica e sofferenza, ma anche di resilienza, nel cercare di riprendere in mano la nostra esistenza, per continuare a viverla e riprogettarla con dignità e positività, senza tanto clamore o enfasi, è una storia, nella sua drammaticità, comune a tante altre, troppo spesso taciute e vissute in silenzio e solitudine.

Mi presento, ho 56 anni, sono psicologa e psicoterapeuta, fino al 2005 dipendente, poi ho deciso, per troppo stress e incopatibilità con la direzione, di dimettermi e, pur restando nello stesso ambito professionale, di passare alla libera professione. Fu, dopo 24 anni nello stesso posto, una scelta difficile e sofferta. Diedi una svolta radicale alla mia vita, fino ad allora impostata sul lavoro, andando a vivere in campagna, sposandomi e prendendo un cane, la nostra figlia Lola.

A settembre 2012, in vacanza al mare, mi accorgo di piccole perdite che scambiai per lieve incontinenza urinaria, al ritorno andai dalla ginecologa, che mi disse che la vescica non aveva problemi. Mi fece un’eco intravaginale e siccome la situazione non era chiara, mi prescrisse una isteroscopia. A fine ottobre, il risultato: carcinoma all’utero. I mesi successivi furono eterni, passati nell’incredulità e nella preoccupazione di quanto stava avvenendo, finalmente il 18 gennaio 2013 mi opero, la mia unica preoccupazione era togliere il carcinoma e tornare al più presto a casa. La situazione che trovarono fu peggio del previsto. Fu fatta un’ isterectomia totale più l’asportazione di 35 linfonodi, di cui 2 positivi: il tumore era quindi già fuoriuscito dall’utero. L’esito della biopsia fu carcinoma di III grado C.

La mia determinazione nel tornare a casa era tale che al quinto giorno mi tolsero già l'ultimo drenaggio e parlavano di dimettermi nel giorno successivo. Mi ero sentita come al solito la mattina con Rupert, mio marito e mi aveva detto che sarebbe venuto verso mezzogiorno. All'una non era ancora arrivato, pensai a problemi di traffico e mi addormentai. Quando mi svegliai non c'era, lo chiamai e, con mia sorpresa, rispose la signora che ogni martedì viene a fare le pulizie di casa. Un po' imbarazzata mi disse: " Carla, ho già chiamato tua sorella, perché in casa c'è la Lola, il cellulare e l'auto di Rupert, ma lui non c'è...". Telefonai subito a mia sorella, mi gelo' il sangue:

"Stai tranquilla lo stanno...lo stiamo cercando, ti telefono appena ho notizie". Dopo un'ora arrivò e mi disse che era in ospedale in rianimazione, lo stavano operando per emorragia cerebrale bilaterale e il chirurgo aveva detto che la situazione era grave. I tre giorni successivi sarebbero stati determinanti: in questi casi 1/3 dei pazienti muore, 1/3 guarisce, 1/3 resta disabile. Non morirà, ma si fece 4 mesi di ospedale fra rianimazione, chirurgia neurologica e riabilitazione neuromotoria. Io fui dimessa venerdì, al settimo giorno dall'intervento. Normalmente la degenza media è di 10/15 giorni. Nonostante l'insistenza di mia sorella , non volli però trasferirmi da lei. Preferivo stare a casa mia, fra le mie cose e la mia Lola.

Non fu facile, non tanto per i problemi fisici, anche se avevo un taglio che andava dallo sterno al pube, ma per una distanza mai provata con mio marito. Ci conoscevamo da 20 anni e per 10 ci siamo visti solo nei weekend, io a Bologna e lui a Casale Monferrato, ma ci sentivamo tutti i giorni. Ora era nella mia stessa città, ma non potevo nè vederlo nè sentirlo! Mi misi a scrivere un diario quotidiano, con le notizie che avevo su di lui. Mi sembrava un modo di restare in contatto. I tre fatidici giorni erano passati, ma ogni volta che diminuivano la sedazione, si agitava tantissimo e aveva crisi respiratorie, mi chiesero l'autorizzazione per la tracheotomia, che poi non fecero. Di positivo c'era che si muoveva e che parlava. Alla fine del mese, mi reggevo in piedi e decisi di farmi accompagnare, volevo vederlo. Stava meglio, parlava, spesso con frasi prive di realtà e senso, ma parlava. Mi riconobbe, mi chiese con un filo di voce della Lola, poi se mi avevano operato. Io gli risposi di sì e che entro poco avrei iniziato radio e chemio. Non sembrava aver capito, poi disse "no, non puoi, devo accompagnarti io, mi tengono qui ma io sto bene." Io al contrario di lui, avevo fatto fatica a riconoscerlo. Non era mio marito, quegli occhi e quel volto non li dimenticherò mai. Era privo di mimica, non rideva, lo sguardo era fisso, privo di vita, emozioni, sentimenti,

Nel frattempo ero stata informata dall'equipe oncologica che, visti gli esiti della biopsia, avrei dovuto fare 25 cicli di radioterapia, tutti i giorni, 5 cicli di chemio settimanali e, al termine, una brachiterapia (radio interna). Quando me lo dissero, mi sentii male. Camminavo si e no e pesavo solo 48kg. Come facevo ad andare tutti i giorni in ospedale? Non ero in grado di guidare la macchina, mia sorella lavorava e già mi faceva la spesa, mi accompagnava alle visite, l'altra sorella non abitava a Bologna ma veniva tutti i fine settimana da me, mio cognato andava tutti i giorni da Rupert, che a Bologna non aveva parenti se non noi, non potevo chiedere loro più di così. Mi dissero di non preoccuparmi, che mi avrebbero dato tutto il tempo per riprendermi, ma io conoscevo i loro tempi sul concetto di ripresa, e non mi tranquillizzai neanche un po'.

Gli esiti dell'emorragia di Rupert si conclamarono in idrocefalo, patologia che avevo sempre associato ai bambini e che non pensavo colpisse anche gli adulti, così tramite internet appresi che, soprattutto negli adulti, viene spesso scambiata con l'Alzheimer , in quanto i sintomi sono molto simili: apatia, perdita della memoria a breve termine, incontinenza. Il cervello in pratica non riesce ad espellere il liquido cerebrale che ogni giorno produce in abbondanza, con conseguente ingrossamento dei ventricoli che si riempiono e vengono compressi dalla scatola cranica. La cura consiste nell'installare due valvole, una nel cervello e una nel peritoneo, collegate tra loro da un catetere che attraversa tutto il busto. Quella in testa drena il liquido dai ventricoli, l'altra lo scarica. Gli effetti collaterali…infiniti, ma nonostante cercassi nei siti più disparati, l'alternativa non c'era. Me ne rendevo conto mano a mano che passavano i giorni. Un' altalena fra speranze e crudeli dati di realtà. Per un po' parlava a segno, poi sul più bello, quando mi stavo illudendo, la sua percezione del tempo e dello spazio mi schiaffeggiavano, risvegliandomi bruscamente. La cosa che più mi straziava era che, nonostante i miei sforzi nell'andarlo a trovare mentre facevo già radio e chemio, dovevo ricominciare da zero ogni volta. Se ci andavo o meno il risultato era uguale: "Quando vieni a trovarmi? Non vieni mai!", se gli raccontavo delle mie nausee o delle notti in bianco, per il bruciore e il prurito vaginale, il giorno dopo mi chiedeva "Ti sei divertita oggi? Raccontami cosa hai fatto di bello!". Lo operarono e dopo varie complicanze, fra cui rigetto, setticemia e reimpianto, a fine maggio lo dimisero, senza neanche aspettare la mia ultima radio! Il suo arrivo stravolse nuovamente il faticoso equilibrio che avevo raggiunto. Ero contenta che tornasse a casa, ma avrei voluto più tempo per me. Ero stanca e debilitata, a fatica riuscivo ad accudire me stessa e la Lola, avevo tanta voglia che qualcuno si prendesse cura di me, mi abbracciasse e mi dicesse "Stai tranquilla, penso a tutto io!". Mi sentivo come se Rupert mi avesse tradito, come se fosse venuto a meno a quel patto di unione "nella salute e nella malattia" che ci eravamo scambiati sette anni prima. Sapevo che non ne aveva colpa, ma questo mi faceva sentire ancora peggio e non mitigava il rancore che provavo nei suoi confronti.

A luglio si era ripreso completamente, aveva ricominciato a lavorare, si sentiva un "miracolato", leggeva spesso il mio diario, diceva che era l'unico modo per non perdere completamente 4 mesi della sua vita. Andammo 10 giorni in Piemonte da sua madre. Temevo il viaggio in auto, visto che voleva guidare lui, ma superò brillantemente la prova. Rivedemmo gli amici, uscimmo a cena fuori, cose normali, ma a noi sembrava tutto bellissimo, come quando ti svegli da un incubo e rivedi il tuo solito letto, la tua solita stanza, tiri un sospiro di sollievo e ti alzi felice di dover fare le solite cose. L'estate passo così, con la voglia di guardare al futuro e ricominciare la vita di sempre.

A fine agosto ebbi una colica violentissima e dolorosissima, una notte da incubo. Non ci feci caso, pensai di aver preso freddo, dopo una settimana ne ebbi un' altra poi, dopo pochi giorni, un'altra ancora. Andai dal medico che mi tranquillizzò, dicendomi che quasi sicuramente erano aderenze dovute all'intervento e alla radio, piccole subocclusioni intestinali, molto dolorose, che col tempo sarebbero passate e mi diede degli antispastici e dei gastroprotettori. La pancia era piena di aria e le coliche peggiorarono. Ora ai crampi, alle scariche diarroiche, si aggiunse il vomito. Iniziai seriamente a pensare che ci fosse qualcosa di grave. Andai al controllo periodico in ginecologia oncologica, dove senza mezzi termini e zero umanità, mi dissero che le ipotesi erano tre: aderenze, e c'era poco da fare, se non aspettare; un laparocele, cioè alcuni punti non avevano tenuto e in quel caso sarebbero intervenuti chirurgicamente; una recidiva del cancro. Ovviamente era partita la ricerca del mostro, così mi ordinarono una gastroscopia, eco, TAC e PET. Io stavo sempre peggio, riuscivo a mangiare qualcosa a mezzogiorno, poi nel pomeriggio, dopo il giro con la Lola, iniziavano i crampi. Quando Rupert tornava a casa dal lavoro, io ero esausta, andavo a letto e verso le 21 finalmente vomitavo, restavo lì priva di forze. A fine di ottobre, le crisi erano giornaliere, il vomito era scuro, tecnicamente si dice "fecale", e pesavo 44 kg. Tornavo settimanalmente in oncologia e all'ultima visita, ormai a fine ottobre, il primario mi disse "Bene, signora, nessuna recidiva! Contenta?". Io risposi che non lo ero, perché per me, morire di cancro o di fame erano la stessa cosa! Spazientito mi disse che potevo provare ad andare da un gastroenterologo per una cura farmacologica più efficace!!! Ci andai a pagamento, non potevo aspettare. Mi visitò e quando vide la mia pancia gonfia come un pallone e la mia magrezza, mi disse che i farmaci me li dava, ma che dubitava della loro efficacia. Voleva farmi esami più approfonditi, forse qualche flebo, per migliorare l'evidente stato di malnutrizione. Propose, per la settimana successiva, un breve ricovero in clinica. Per fortuna mio marito ha come benefit sul lavoro, un'assicurazione privata estesa ai famigliari, a copertura delle spese sanitarie, perché quei pochi giorni in clinica iniziarono l'11 ottobre 2013 e terminarono il 5 gennaio 2014! Entrai al pomeriggio e dopo alcuni prelievi di sangue mi fecero una banale radiografia, che diagnosticò una occlusione intestinale. Fu chiamato d'urgenza un chirurgo, fra i più rinomati. L'intervento era complesso e rischioso, viste le mie condizioni, ma non c'era alternativa. Forse qualche giorno poi sarei morta. Fui operata il 14 novembre, sei ore di intervento più un giorno di terapia intensiva. Mi dissero che gli organi interni erano come porcellana, bruciati, e l'intestino completamente avvolto da briglie in tutta la sua lunghezza. Avevano dovuto tagliare e ricucire un piccolo pezzo finale, perché troppo avvolto dalle aderenze. Ora bisognava attendere la ricanalizzazione, in altri termini dovevo andare di corpo autonomamente. Ero troppo debole per preoccuparmi di mio marito che vedevo apatico, ripetitivo, privo di gesti affettuosi. Veniva quasi tutti i giorni, si metteva su una sedia e stava lì, rispondeva alle mie domande e se non gliene facevo, stava zitto. Io intanto non canalizzavo, ero alimentata anche per via parenterale, mangiavo pochissimo, non mi reggevo in piedi, ripresi a vomitare, mi fecero lastre di vario genere anche con liquido di contrasto. Il chirurgo, veniva mattina e sera, anche la domenica. Era per me un punto di riferimento fondamentale. Poi, la mattina del 24, mi disse che in giornata avrebbero dovuto rioperarmi perché i punti all'intestino non avevano tenuto. Verso le 18 mi portarono in sala: altre 5 ore e 1 notte in terapia intensiva. Mi svegliai con un'ileostomia e un metro e venti di intestino.

Il 4 dicembre chiamai Rupert la mattina presto, prima che andasse a lavorare, ma il cellulare suonava a vuoto. Mi sembrava un incubo, rivivevo un film già visto. Chiamai la vicina chiedendole se poteva guardare in cortile se c'era la sua auto, nella speranza che fosse già al lavoro. Purtroppo l’auto c'era. Le chiesi di andare giù, portandosi dietro le chiavi di casa mia in suo possesso. Lui le non aprì. Quando entrò, lo trovò sul divano, le disse di non preoccuparsi che era sabato e non andava a lavorare, purtroppo era lunedì, chiamai subito mia sorella che si precipitò con mio cognato. Lo trovarono ancora sul divano, il cellulare suonava, ma lui non rispondeva, non si voleva alzare e, dall'odore, si intuiva che si era fatto la pipì addosso. Era vigile, leggermente su di giri e aggressivo verbalmente. Questa volta non perse conoscenza, ma era più delirante, particolarmente fissato con i ristoranti. Un giorno mi disse che se io ero convinta di essere in ospedale, sbagliavo, comunque ero libera di pensarla come volevo, lui era al ristorante, sì, avevo ragione era su un letto e aveva una flebo, ma gli avevano trovato un posto proprio vicino alle cucine, vicino al tavolo dei suoi colleghi. Un’altra volta mi raccontò che nella notte lo avevano trasferito in un altro posto, un piccolo albergo di montagna, dove si mangiava molto bene. Dal 4 dicembre, fu dimesso a fine febbraio. Io questa volta non ci andai. La mia nuova convalescenza rese la precedente una passeggiata. Questa fu durissima, pesavo 43 kg, ero attaccata alla nutrizione per via parenterale, incontinente, mi reggevo a mala pena in piedi e per i primi 20 giorni il sacchetto per la stomia non si attaccava, per cui ero perennemente sporca e disperata. Un incubo condiviso con mia sorella che per i primi 15 giorni si trasferì a casa mia e mi assistette 24 ore su 24. Lui anche questa volta non ricorderà nulla, se non qualche flash come quando non ricordiamo bene un sogno, ma solo qualche particolare sfuocato. Ricorda, per esempio, di quando lo legarono al letto, solo l'umiliazione dei polsi bloccati, ma non che per cercare delle sigarette, aveva varie volte tentato di scavalcare le sbarre del letto, rischiando di strappare il catetere che collegava la valvola inserita nella testa a quella tolta dall'intestino e appesa ad un'asta e provocare danni irreversibili al cervello.

Questa volta, per me, il suo ricovero fu meno traumatico, forse perché dovevo accettare e gestire una "convalescenza" a cui nè io nè le mie sorelle eravamo state preparate, forse perché avevo una gran rabbia nei suoi confronti. Ancora una volta mi aveva lasciata sola, fisicamente e moralmente. Per fortuna la Lola, che al contrario di mio marito, aveva capito molto bene che stavo male, non mi lasciava un attimo e aveva accettato di buon grado la dog sitter che la portava a spasso due volte al giorno. Ottenni a fatica e, con non pochi fraintendimenti (per esempio l'assistente sociale aveva capito di dover cercare un posto in una Residenza Sanitaria Assistita perché io non accettavo più il suo rientro a casa) il prolungamento di 15 giorni della sua degenza in una clinica di Bologna specializzata in riabilitazione neuro-motoria. Lo andai a trovare una volta sola, pochi giorni prima che lo dimettessero, soprattutto perché convocata dall'equipe sanitaria. Nonostante le infauste previsioni che ci comunicarono - non avrebbe guidato, avrebbe avuto problemi di attenzione e memoria breve, sarebbe quasi certamente rimasto incontinente - a fine maggio, a circa tre mesi dalla dimissione, era tornato a lavorare, l’incontinenza e la deambulazione erano tornati quelli di sempre e i test cognitivi attestarono i risultati ottenuti.

Io stavo meglio, avevo recuperato qualche chilo e un po' di forze, ma il decorso, in attesa di un nuovo intervento e di un quarto taglio per tutta la lunghezza della mia pancia, era ancora lungo e, assurdamente, tutta quella fatica e sofferenza non sarebbe servita a risolvere il problema da cui tutto era partito, il cancro. Lui, a parte qualche capogiro, apparentemente non aveva problemi, chiedeva in continuazione particolari sui suoi comportamenti durante la degenza. Non dev'essere facile convivere con l'idrocefalo, sapendo che, senza avvertirti, i ventricoli del tuo cervello potrebbero iniziare a gonfiarsi di liquido e improvvisamente cominciare a perdere alcune funzioni cerebrali. Comunichi normalmente, ma non sai che giorno è o che ora è. Continui a parlare, ma il tuo è un dizionario privo di contenuti. Non stai male, ma gli altri sì e sarà colpa tua, senza volontà nè ricordo.

Cercammo e cerchiamo così di affrontare insieme una quotidianità di vita, il più normale possibile, anche se vivere assieme, entrambi con una grave malattia, non è facile: è come se tutti e due sapessimo che l'altro ha un amante a cui pensa sempre, giorno e notte, e facessimo finta di niente. Non è che non parliamo dei nostri problemi, con il mio carattere sarebbe impossibile, ma le discussioni, l'ascolto reciproco, lasciano entrambi incompleti, impotenti nel non riuscire a dare all'altro tutto l'amore, l'empatia, la partecipazione che vorremmo, troppo presi da due anni che hanno stravolto la nostra vita e i nostri corpi. Nulla sarà più come prima, ma credo che il tempo e l’amore reciproco ci aiuteranno a ricongiungere i nostri percorsi.

La storia per ora finisce qui, ma vorrei dire ancora alcune cose: il cancro non mi "ha reso più bella" no, proprio no, mi ha reso forse più consapevole, nei confronti della fragilità delle certezze sui valori della vita, del mio corpo, del tempo e dgli affetti. Non era questo il futuro che avevo immaginato per me, per noi. Progettare o immaginare il futuro è un lusso che non mi posso permettere. Cerco di non pensarci, vivendo con occhi attenti e fiduciosi il presente, cercando di rendere più solide e durature le basi per il mio domani.

lunedì 13 ottobre 2014

Intermezzo - Il cancro al seno metastatico

E` il 13 ottobre, la giornata del cancro al seno metastatico. Durante tutto un mese, che di giorni ne ha 31 peraltro, interamente dedicato al cancro al seno, solo per un giorno, uno solo l'attenzione si sposta su quello metastatico, quello che uccide e su cui si fa pochissima ricerca.
Il Metastatic Breast Cancer Network ha pubblicato un volantino da stampare e scaricare con i 13 fatti da sapere sul cancro al seno metastatico (qui). Ne elenchiamo alcuni:

1. Nessuno muore finche` il cancro al seno rimane nel seno. Le metastasi si verificano quando le cellule cancerose si spostano in altri organi e questo mette a rischio la vita.

2. La parola metastasi si riferisce alla diffusione del cancro in diverse parti del corpo, solitamente ossa, fegato, polmoni e cervello.

4. Il trattamento del cancro al seno metastatico dura tutta la vita e mira la controllo della malattia e al mantenimento di una buona qualita` di vita.

5. Circa il 6-10% delle persone scoprono il cancro quando e` gia` metastatico.

6. La diagnosi precoce non garantisce la cura. Il cancro al seno mestatico puo` manifestarsi a distanza di 5, 10 o 15 anni dalla diagnosi iniziale e anche se controlli e mammografie annuali sono stati effettuati regolarmente.

7. Il 20-30% delle persone con cancro al seno sviluppera` la forma metastatica.

8. Le giovani, cosi` come gli uomini, possono avere il cancro al seno metastatico.

9. Come il cancro al seno negli stadii precedenti, esistono tipi diversi di cancro al seno metastatico.

11. Il cancro al seno metastatico non e` una condanna a morte. Ogni paziente e` diverso dall'altro e ha una malattia diversa da quelle degli altri.

12. Non esistono statistiche relative alla prognosi per il cancro al seno metastatico. Ogni paziente e ogni forma di questo tipo di cancro sono unici.

Desideriamo inoltre segnalare che oggi, in onore della Giornata del Cancro al Seno Mestatico, e` stato pubblicato un numero speciale della newsletter del Breast Cancer Consortium (qui) a cura di Grazia De Michele e Cinzia Greco (qui) dal titolo "Demystifying Breast Cancer". Il numero speciale raccoglie storie che non rientrano nella narrazione ottimistica ed edulcorata del cancro al seno, inclusa quella di una delle fondatrici dell'associazione brindisina Il Passeggino Rosso (qui), Belinda Rita Silvestro, la cui madre e` stata colpita dalla malattia alcuni anni fa. Quest'esperienza ha accresciuto il desiderio di Belinda di agire politicamente per la salvaguardia dell'ambiente e della salute della sua comunita` e l'ha spinta a dare vita, insieme ad altre attiviste, all'associazione che e` oggi un punto di riferimento per la difesa del diritto alla salute in Italia.

martedì 7 ottobre 2014

Il cancro al polmone

Lo chiamano il big killer perche` se ti colpisce, le possibilita` di venirne fuori non sono molte. Una volta mieteva vittime principalmente tra gli uomini. Adesso e` in costante aumento anche tra le donne (qui). E` il cancro al polmone. Un nemico silenzioso. Ti prende alle spalle, senza che te ne accorga. Una tosse fastidiosa, il respiro un po` corto. Tutte cose che si possono attribuire anche ad altro. O addirittura nessun sintomo. Quando arriva la diagnosi, si e` gia` installato ben bene e liberarsene diventa un terno al lotto.
Sul cancro al polmone pesa da anni lo stigma del fumo di sigaretta. Eppure, come ha reso noto recentemente l'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, solo nel 2010 le morti per cancro al polmone attribuibili alla polveri sottili, prodotte in grosse quantita` dalle automobili, dalla combustione del legno, dai cantieri edili e capaci di penetrare in profondita` nei nostri polmoni e nei vasi sanguigni, sono state 223.000 (qui)
Non e` un caso che oggi ci si possa ammalare di cancro al polmone anche in giovane eta`, quando i danni provocati dall'eventuale fumo di sigaretta non possono essere tali da spiegare l'insorgenza della patologia. E` successo a Lisa Smirl, una giovanissima docente universitaria presso la University of Sussex che, ammalatasi a 36 anni, e` spirata a soli due anni dalla diagnosi nel marzo del 2013 (qui)

"Come e` possibile che una trentaseienne, attenta alla propria salute, che fuma di tanto in tanto in compagnia, di classe media e fidanzata con un medico possa sviluppare un cancro al polmone in metastasi senza che nessuno se ne accorga? Come?"

Cosi` scriveva Lisa sul suo blog, Stage V (qui). C'era voluto un anno intero di peregrinazioni tra medici per addivenire a una diagnosi che, purtroppo, non lasciava spazio a molte speranze. Nonostante i sintomi sempre piu` pesanti che accusava e riportava agli specialisti che la visitavano, le veniva costantemente risposto che la sua era solo ansia o depressione.

"Non posso provarlo ed e` solo la mia opinione, ma non ho dubbi che gli errori nella mia diagnosi siano stati in gran parte dovuti al fatto che sono una donna sulla quarantina e che i medici avessero preconcetti riguardo a un'origine psicologica piuttosto che fisica dei miei disturbi"

Ne siamo convinte anche noi, Lisa, come siamo convinte che non si possa morire cosi` giovani di cancro al polmone.

mercoledì 1 ottobre 2014

La sclerodermia e le malattie reumatiche

Il mese della promozione dell'industria del cancro al seno, ottobre, e` iniziato. Ne avremo per 31 giorni. Saremo sommersi di nastri rosa, inviti ad aderire ai programmi di screening perche` salvano la vita, inni all'ottimismo ed esempi di guarigioni miracolose. L'altra faccia del cancro al seno, quella della malattia le cui cause sono ancora oscure, i cui tassi di mortalita` non diminuiscono per i programmi di screening ma, purtroppo, sono agli stessi livelli da troppo tempo, la faccia delle donne che vivono la fase terminale della malattia verra` oscurata.
Siamo stanche del circo rosa al cui spettacolo osceno siamo costrette ad assistere ogni ottobre. Riteniamo, al contrario, che invece di continuare a parlare a vanvera di cancro al seno, bisognerebbe prendersi una pausa di riflessione per ricominciare a discuterne su basi completamente diverse. Le associazioni del nastro rosa e l'establishment medico non vogliono nemmeno sentirne parlare. Allora, decise a dare il buon esempio, la pausa ce la prendiamo da sole. Per tutto ottobre su questo blog non si parlera` di cancro al seno, ma di altre malattie che colpiscono donne e uomini e sulle quali non si spende una parola perche` non ci si possono abbinare un paio di tette che facciano aumentare le vendite di rossetti e giornali. Chiunque fosse interessato a raccontare la propria storia di malattia o anche quella di un amico o familiare puo` scriverci e il suo post sara` pubblicato.
Il primo post riguarda una malattia che fino a qualche tempo fa non conoscevamo. Poi la mamma di una cara amica ne e` stata colpita. La malattia di chiama sclerodermia, ma le riflessioni di
Sonja riguardano anche, piu` in generale, tutte le malattie reumatiche

La sclerodermia e le malattie reumatiche

di Sonja Beccaceci

Era il 20 dicembre 2008. All’epoca abitavo a Southampton, una città inglese sulla costa sud-ovest. Mi ci ero trasferita per fare un dottorato in chimica fisica. Stavo per partire da Bournemouth per recarmi a Torino dove vive mia sorella. Avrei passato qualche giorno lì con lei e in seguito saremmo partite insieme per Foggia, dove avremmo trascorso il Natale in famiglia come sempre.
Ero piuttosto agitata perché al momento del check-in mi avevano chiesto se avessi dei Christmas crackers* in valigia, in quanto non potevano essere portati né nel bagaglio da mandare in stiva né in quello a mano per motivi di sicurezza. Io dissi “No”. Ne avevo venti, in realtà, e non avevo alcuna intenzione di rinunciarci.
Con una grande ansia e con la paura di venire arrestata da un momento all'altro, riuscii a fare il viaggio senza complicazioni e arrivai a Torino in tempo per cena.
Ormai rilassata per essermi scampata la galera, e contenta che il gatto mi avesse riconosciuto nonostante i due anni passati separati, non immaginavo che quel giorno avrebbe chiuso una fase della mia vita e ne avrebbe aperto un'altra.
Mentre preparava la cena, mia sorella a un certo punto mi disse "Senti, ti devo dire una cosa che riguarda mamma. Non ti ha voluto dire nulla per non farti preoccupare. Qualche sera fa si è accorta che c'è qualcosa che non va con il cuore. Ha fatto dei controlli e in effetti ci sono problemi". Quello fu l'ultimo Natale che mia madre trascorse da persona considerata tutto sommato sana. D'altronde, chi non inizia ad avere qualche problema di salute una volta raggiunti i 60 anni? Ma mia madre “sana” non lo era per nulla.
Dopo le vacanze di Natale iniziarono una serie di controlli e test, tra cui uno che aveva rilevato che i polmoni avevano le punte non più flessibili, era come se fossero calcificate. Partì subito l'ossigeno terapia, perché la scarsa capacità polmonare di mia madre non assicurava il giusto apporto di ossigeno all'organismo. Le fu consigliato di andare a Bologna dove – così ci fu detto - c'è uno dei reparti di pneumologia più conosciuti d'Italia.
In quell'ospedale la diagnosi fu semplice e veloce. A quanto pare la malattia di mia madre le si vedeva in faccia. Aveva la fibrosi polmonare. Ma la fibrosi polmonare non viene mai da sola, è sempre scatenata da qualcos'altro. In questo caso quel qualcos'altro era la sclerodermia. Mia madre aveva la sclerodermia.
Mi raccontò tutto al telefono mentre viaggiavo da Londra a Southampton. A quel tempo ero ancora la pazza che faceva la pendolare tra Southampton e Londra. La domanda che mi venne spontanea, e che verrebbe spontanea a tutti fu: 'E che cos'è la sclerodermia?'
La parola Sclerodermia viene dal greco e vuol dire “pelle dura”. E' una malattia autoimmune, cioè è il corpo stesso che attacca i propri tessuti.
Ci sono due tipi di sclerodermia: la sclerodermia localizzata e la sclerosi sistemica.
La sclerodermia localizzata è la forma più lieve della malattia e coinvolge solo la pelle, la indurisce, proprio come dice la parola stessa, può creare problemi di movimento ma in genere non richiede nessun trattamento di tipo farmacologico.
La sclerosi sistemica invece coinvolge anche gli organi interni come i polmoni, il cuore, l'apparato digerente e i reni. Colpisce generalmente persone tra i 30 e i 50 anni, soprattutto donne.
Spesso la malattia inizia con il fenomeno di Raynaud, che è un problema di circolazione alle dita delle mani e dei piedi. Il sangue non circola come dovrebbe e le dita, soprattutto quando c'è freddo, diventano bianche e provocano forte dolore, le cosiddette “mani fredde sclerodermiche”.
La pelle cambia aspetto un po' in tutto il corpo. Le labbra si assottigliano, e così anche le narici e i lobi delle orecchie, e si formano macchie rosse sul viso. Le gengive si restringono e gli occhi si asciugano. Per questo la malattia le si vedeva in faccia. I malati sclerodermici hanno delle caratteristiche in comune che un occhio esperto non può non notare.
Le cause della malattia sono al momento ignote. Il sistema immunitario diventa iperattivo e produce troppo collagene causando fibrosi sui tessuti e sugli organi limitandone la loro funzione.
Così come non si conoscono le cause, al momento non esiste una cura. La terapia farmacologica mira ad allievarne i sintomi, come i problemi circolatori e l'ipertensione polmonare, ma non guarisce la persona dalla malattia. Normalmente un paziente sclerodermico viene seguito da un medico reumatologo, ma in base ai problemi che ne susseguono, può essere seguito anche da un cardiologo e da uno pneumologo. È una malattia rara e di conseguenza poca ricerca viene fatta a riguardo, sia per scoprire le cause sia per trovare una cura.
Mia madre era affetta da sclerosi sistemica. È una malattia strana e subdola perché, a parte i chiari (ma non a tutti) segni esterni sulla pelle, lavora dall'interno. Dall'esterno non si vede nulla. Io non sono malata, quindi non so cosa voglia dire, ma posso raccontare la frustrazione che provavo perché non capivo esattamente cosa le stesse succedendo. Quando vedevo mia madre in uno dei suoi momenti di crisi in cui non riusciva ad alzarsi dal letto, le chiedevo: 'Ma cosa hai esattamente? Cosa ti senti? Io non capisco...' E lei non poteva che rispondermi che si sentiva male.
Dal momento in cui le diagnosticarono malattia, si volle subito attivare diventando parte di un'associazione che al tempo era solo pugliese ma che al momento copre l'intero territorio nazionale. L'associazione è l'APMAR, Associazione Persone con Malattie Reumatiche (qui). Si è data molto da fare perché le malattie reumatiche ricevessero l'attenzione che meritano, coinvolgendo medici e istituzioni. Ha divulgato quanto più potesse perché si facesse diagnosi precoce. Il fenomeno di Raynaud per esempio può essere individuato velocemente con un esame non invasivo chiamato capillaroscopia in cui vengono osservati i capillari sanguigni sotto le unghie delle mani. Se i capillari risultano dilatati o rotti, si fanno ulteriori controlli. Io stessa l'ho fatto gratuitamente in occasione della Giornata delle Sclerodermia (29 giugno) organizzata da APMAR a Foggia, ed è durato solo 5 minuti.
La situazione di mia madre era molto grave e precipitava sempre di più ogni anno, nonostante la quantità enorme di medicine che prendeva. In tutto penso che ne prendesse 30 al giorno. Durante l'ultimo anno o poco più, anche il solo uscire di casa per sedersi in macchina richiedeva tempi di recupero molto lunghi.
Mia madre è venuta a mancare il 27 gennaio di quest'anno dopo cinque anni dalla diagnosi della malattia.
Io e mia madre avevamo un diverso approccio alla sclerodermia. Io, da scienziata, sono abituata a cercare di capire come la malattia agisce a livello biologico e a cercare una causa, qualcuno o un qualcosa contro cui puntare il dito, e spero con tutto il cuore che si riesca a trovarlo prima che me ne vada anche io da questo mondo.
Lo scopo di mia madre, invece, era far sentire la voce dei malati di sclerodermia, e in più in generale dei malati reumatici, affinché ricevessero la giusta assistenza sanitaria e non passassero inosservati. In questo post vorrei essere più in linea con quello che era il suo approccio e lascio un link (qui)che riporta un'intervista del 2012 fatta a lei, come rappresentante di APMAR, e alla presidentessa dell'associazione GILS, Gruppo Italiano Lotta alla Sclerodermia (qui), perché loro meglio di me possono spiegare che cosa vuol dire vivere con questa malattia e le problematiche che ne risultano. Dura poco più di venti minuti e ne consiglio caldamente la visione.
Vorrei concludere riportando quello che spesso mia madre sottolineava durante alcuni degli incontri che faceva in pubblico e che riguarda le malattie reumatiche tutte, quelle malattie che ho sentito una volta il suo reumatologo chiamare “le malattie del silenzio” perché pochi ne parlano e in maniera molto approssimata. Dopotutto c'è anche mio padre tra le persone malate, in quanto affetto da artrite psoriasica dal 2005. Le malattie reumatiche non sono i dolori che ti vengono quando invecchi perché c'è umidità. Le malattie reumatiche possono colpire tutti in tutte le fasce di età, anche i bambini piccoli. Le malattie reumatiche sono soprattutto dolore fisico e sofferenza. Di malattie reumatiche si può morire.

 * I Christmas crackers sono giochi natalizi inglesi che contengono sostenze chimiche che provocano un rumore tipo scoppio e creano un po' fumo.