venerdì 17 ottobre 2014

A volte 1+1 fa 11. La storia di Carla e Rupert


Nessuno mi ha mai detto “ fatti forza”, “devi reagire”, più spesso ho ricevuto dei “ non so come fai” o “ sei davvero una roccia”. Io credo nell’affrontare con positività la vita, anche nei suoi aspetti più dolorosi, penso però che sia una dote per buona parte innata, che se messa alla prova da il meglio di sé, potenziandosi. Non mi sono mai posta il problema se fossi o meno una persona forte, finché ho saputo di esserlo perché forse era l’unica alternativa che avevo. Ho però troppo rispetto per il dolore (so bene che dietro a un sorriso, spesso si celano sofferenze e lacrime) per accettare che forza e positività vengano esibiti ed ostentati come trofei di guerra. Troppo spesso sui social media appaiono link che incitano ed esibiscono gioia di vivere, mostrando e rappresentando il cancro come qualcosa di bello e determinante per la crescita di ognuno di noi, ottenendo un messaggio comunicativo paradossale, se non ridicolo: “evita di ammalarti di cancro, previenilo, se però lo prendi, non preoccuparti, è un’esperienza di vita fondamentale!”. Messaggi e foto (seni attraenti e sexy, giovani e belle donne calve e felici) che provocano ogni volta in me un senso di rabbia impotente e di violenza gratuita subita.

Dico questo perché la mia storia, anzi la nostra, mia e di mio marito, è una storia di malattia, di fatica e sofferenza, ma anche di resilienza, nel cercare di riprendere in mano la nostra esistenza, per continuare a viverla e riprogettarla con dignità e positività, senza tanto clamore o enfasi, è una storia, nella sua drammaticità, comune a tante altre, troppo spesso taciute e vissute in silenzio e solitudine.

Mi presento, ho 56 anni, sono psicologa e psicoterapeuta, fino al 2005 dipendente, poi ho deciso, per troppo stress e incopatibilità con la direzione, di dimettermi e, pur restando nello stesso ambito professionale, di passare alla libera professione. Fu, dopo 24 anni nello stesso posto, una scelta difficile e sofferta. Diedi una svolta radicale alla mia vita, fino ad allora impostata sul lavoro, andando a vivere in campagna, sposandomi e prendendo un cane, la nostra figlia Lola.

A settembre 2012, in vacanza al mare, mi accorgo di piccole perdite che scambiai per lieve incontinenza urinaria, al ritorno andai dalla ginecologa, che mi disse che la vescica non aveva problemi. Mi fece un’eco intravaginale e siccome la situazione non era chiara, mi prescrisse una isteroscopia. A fine ottobre, il risultato: carcinoma all’utero. I mesi successivi furono eterni, passati nell’incredulità e nella preoccupazione di quanto stava avvenendo, finalmente il 18 gennaio 2013 mi opero, la mia unica preoccupazione era togliere il carcinoma e tornare al più presto a casa. La situazione che trovarono fu peggio del previsto. Fu fatta un’ isterectomia totale più l’asportazione di 35 linfonodi, di cui 2 positivi: il tumore era quindi già fuoriuscito dall’utero. L’esito della biopsia fu carcinoma di III grado C.

La mia determinazione nel tornare a casa era tale che al quinto giorno mi tolsero già l'ultimo drenaggio e parlavano di dimettermi nel giorno successivo. Mi ero sentita come al solito la mattina con Rupert, mio marito e mi aveva detto che sarebbe venuto verso mezzogiorno. All'una non era ancora arrivato, pensai a problemi di traffico e mi addormentai. Quando mi svegliai non c'era, lo chiamai e, con mia sorpresa, rispose la signora che ogni martedì viene a fare le pulizie di casa. Un po' imbarazzata mi disse: " Carla, ho già chiamato tua sorella, perché in casa c'è la Lola, il cellulare e l'auto di Rupert, ma lui non c'è...". Telefonai subito a mia sorella, mi gelo' il sangue:

"Stai tranquilla lo stanno...lo stiamo cercando, ti telefono appena ho notizie". Dopo un'ora arrivò e mi disse che era in ospedale in rianimazione, lo stavano operando per emorragia cerebrale bilaterale e il chirurgo aveva detto che la situazione era grave. I tre giorni successivi sarebbero stati determinanti: in questi casi 1/3 dei pazienti muore, 1/3 guarisce, 1/3 resta disabile. Non morirà, ma si fece 4 mesi di ospedale fra rianimazione, chirurgia neurologica e riabilitazione neuromotoria. Io fui dimessa venerdì, al settimo giorno dall'intervento. Normalmente la degenza media è di 10/15 giorni. Nonostante l'insistenza di mia sorella , non volli però trasferirmi da lei. Preferivo stare a casa mia, fra le mie cose e la mia Lola.

Non fu facile, non tanto per i problemi fisici, anche se avevo un taglio che andava dallo sterno al pube, ma per una distanza mai provata con mio marito. Ci conoscevamo da 20 anni e per 10 ci siamo visti solo nei weekend, io a Bologna e lui a Casale Monferrato, ma ci sentivamo tutti i giorni. Ora era nella mia stessa città, ma non potevo nè vederlo nè sentirlo! Mi misi a scrivere un diario quotidiano, con le notizie che avevo su di lui. Mi sembrava un modo di restare in contatto. I tre fatidici giorni erano passati, ma ogni volta che diminuivano la sedazione, si agitava tantissimo e aveva crisi respiratorie, mi chiesero l'autorizzazione per la tracheotomia, che poi non fecero. Di positivo c'era che si muoveva e che parlava. Alla fine del mese, mi reggevo in piedi e decisi di farmi accompagnare, volevo vederlo. Stava meglio, parlava, spesso con frasi prive di realtà e senso, ma parlava. Mi riconobbe, mi chiese con un filo di voce della Lola, poi se mi avevano operato. Io gli risposi di sì e che entro poco avrei iniziato radio e chemio. Non sembrava aver capito, poi disse "no, non puoi, devo accompagnarti io, mi tengono qui ma io sto bene." Io al contrario di lui, avevo fatto fatica a riconoscerlo. Non era mio marito, quegli occhi e quel volto non li dimenticherò mai. Era privo di mimica, non rideva, lo sguardo era fisso, privo di vita, emozioni, sentimenti,

Nel frattempo ero stata informata dall'equipe oncologica che, visti gli esiti della biopsia, avrei dovuto fare 25 cicli di radioterapia, tutti i giorni, 5 cicli di chemio settimanali e, al termine, una brachiterapia (radio interna). Quando me lo dissero, mi sentii male. Camminavo si e no e pesavo solo 48kg. Come facevo ad andare tutti i giorni in ospedale? Non ero in grado di guidare la macchina, mia sorella lavorava e già mi faceva la spesa, mi accompagnava alle visite, l'altra sorella non abitava a Bologna ma veniva tutti i fine settimana da me, mio cognato andava tutti i giorni da Rupert, che a Bologna non aveva parenti se non noi, non potevo chiedere loro più di così. Mi dissero di non preoccuparmi, che mi avrebbero dato tutto il tempo per riprendermi, ma io conoscevo i loro tempi sul concetto di ripresa, e non mi tranquillizzai neanche un po'.

Gli esiti dell'emorragia di Rupert si conclamarono in idrocefalo, patologia che avevo sempre associato ai bambini e che non pensavo colpisse anche gli adulti, così tramite internet appresi che, soprattutto negli adulti, viene spesso scambiata con l'Alzheimer , in quanto i sintomi sono molto simili: apatia, perdita della memoria a breve termine, incontinenza. Il cervello in pratica non riesce ad espellere il liquido cerebrale che ogni giorno produce in abbondanza, con conseguente ingrossamento dei ventricoli che si riempiono e vengono compressi dalla scatola cranica. La cura consiste nell'installare due valvole, una nel cervello e una nel peritoneo, collegate tra loro da un catetere che attraversa tutto il busto. Quella in testa drena il liquido dai ventricoli, l'altra lo scarica. Gli effetti collaterali…infiniti, ma nonostante cercassi nei siti più disparati, l'alternativa non c'era. Me ne rendevo conto mano a mano che passavano i giorni. Un' altalena fra speranze e crudeli dati di realtà. Per un po' parlava a segno, poi sul più bello, quando mi stavo illudendo, la sua percezione del tempo e dello spazio mi schiaffeggiavano, risvegliandomi bruscamente. La cosa che più mi straziava era che, nonostante i miei sforzi nell'andarlo a trovare mentre facevo già radio e chemio, dovevo ricominciare da zero ogni volta. Se ci andavo o meno il risultato era uguale: "Quando vieni a trovarmi? Non vieni mai!", se gli raccontavo delle mie nausee o delle notti in bianco, per il bruciore e il prurito vaginale, il giorno dopo mi chiedeva "Ti sei divertita oggi? Raccontami cosa hai fatto di bello!". Lo operarono e dopo varie complicanze, fra cui rigetto, setticemia e reimpianto, a fine maggio lo dimisero, senza neanche aspettare la mia ultima radio! Il suo arrivo stravolse nuovamente il faticoso equilibrio che avevo raggiunto. Ero contenta che tornasse a casa, ma avrei voluto più tempo per me. Ero stanca e debilitata, a fatica riuscivo ad accudire me stessa e la Lola, avevo tanta voglia che qualcuno si prendesse cura di me, mi abbracciasse e mi dicesse "Stai tranquilla, penso a tutto io!". Mi sentivo come se Rupert mi avesse tradito, come se fosse venuto a meno a quel patto di unione "nella salute e nella malattia" che ci eravamo scambiati sette anni prima. Sapevo che non ne aveva colpa, ma questo mi faceva sentire ancora peggio e non mitigava il rancore che provavo nei suoi confronti.

A luglio si era ripreso completamente, aveva ricominciato a lavorare, si sentiva un "miracolato", leggeva spesso il mio diario, diceva che era l'unico modo per non perdere completamente 4 mesi della sua vita. Andammo 10 giorni in Piemonte da sua madre. Temevo il viaggio in auto, visto che voleva guidare lui, ma superò brillantemente la prova. Rivedemmo gli amici, uscimmo a cena fuori, cose normali, ma a noi sembrava tutto bellissimo, come quando ti svegli da un incubo e rivedi il tuo solito letto, la tua solita stanza, tiri un sospiro di sollievo e ti alzi felice di dover fare le solite cose. L'estate passo così, con la voglia di guardare al futuro e ricominciare la vita di sempre.

A fine agosto ebbi una colica violentissima e dolorosissima, una notte da incubo. Non ci feci caso, pensai di aver preso freddo, dopo una settimana ne ebbi un' altra poi, dopo pochi giorni, un'altra ancora. Andai dal medico che mi tranquillizzò, dicendomi che quasi sicuramente erano aderenze dovute all'intervento e alla radio, piccole subocclusioni intestinali, molto dolorose, che col tempo sarebbero passate e mi diede degli antispastici e dei gastroprotettori. La pancia era piena di aria e le coliche peggiorarono. Ora ai crampi, alle scariche diarroiche, si aggiunse il vomito. Iniziai seriamente a pensare che ci fosse qualcosa di grave. Andai al controllo periodico in ginecologia oncologica, dove senza mezzi termini e zero umanità, mi dissero che le ipotesi erano tre: aderenze, e c'era poco da fare, se non aspettare; un laparocele, cioè alcuni punti non avevano tenuto e in quel caso sarebbero intervenuti chirurgicamente; una recidiva del cancro. Ovviamente era partita la ricerca del mostro, così mi ordinarono una gastroscopia, eco, TAC e PET. Io stavo sempre peggio, riuscivo a mangiare qualcosa a mezzogiorno, poi nel pomeriggio, dopo il giro con la Lola, iniziavano i crampi. Quando Rupert tornava a casa dal lavoro, io ero esausta, andavo a letto e verso le 21 finalmente vomitavo, restavo lì priva di forze. A fine di ottobre, le crisi erano giornaliere, il vomito era scuro, tecnicamente si dice "fecale", e pesavo 44 kg. Tornavo settimanalmente in oncologia e all'ultima visita, ormai a fine ottobre, il primario mi disse "Bene, signora, nessuna recidiva! Contenta?". Io risposi che non lo ero, perché per me, morire di cancro o di fame erano la stessa cosa! Spazientito mi disse che potevo provare ad andare da un gastroenterologo per una cura farmacologica più efficace!!! Ci andai a pagamento, non potevo aspettare. Mi visitò e quando vide la mia pancia gonfia come un pallone e la mia magrezza, mi disse che i farmaci me li dava, ma che dubitava della loro efficacia. Voleva farmi esami più approfonditi, forse qualche flebo, per migliorare l'evidente stato di malnutrizione. Propose, per la settimana successiva, un breve ricovero in clinica. Per fortuna mio marito ha come benefit sul lavoro, un'assicurazione privata estesa ai famigliari, a copertura delle spese sanitarie, perché quei pochi giorni in clinica iniziarono l'11 ottobre 2013 e terminarono il 5 gennaio 2014! Entrai al pomeriggio e dopo alcuni prelievi di sangue mi fecero una banale radiografia, che diagnosticò una occlusione intestinale. Fu chiamato d'urgenza un chirurgo, fra i più rinomati. L'intervento era complesso e rischioso, viste le mie condizioni, ma non c'era alternativa. Forse qualche giorno poi sarei morta. Fui operata il 14 novembre, sei ore di intervento più un giorno di terapia intensiva. Mi dissero che gli organi interni erano come porcellana, bruciati, e l'intestino completamente avvolto da briglie in tutta la sua lunghezza. Avevano dovuto tagliare e ricucire un piccolo pezzo finale, perché troppo avvolto dalle aderenze. Ora bisognava attendere la ricanalizzazione, in altri termini dovevo andare di corpo autonomamente. Ero troppo debole per preoccuparmi di mio marito che vedevo apatico, ripetitivo, privo di gesti affettuosi. Veniva quasi tutti i giorni, si metteva su una sedia e stava lì, rispondeva alle mie domande e se non gliene facevo, stava zitto. Io intanto non canalizzavo, ero alimentata anche per via parenterale, mangiavo pochissimo, non mi reggevo in piedi, ripresi a vomitare, mi fecero lastre di vario genere anche con liquido di contrasto. Il chirurgo, veniva mattina e sera, anche la domenica. Era per me un punto di riferimento fondamentale. Poi, la mattina del 24, mi disse che in giornata avrebbero dovuto rioperarmi perché i punti all'intestino non avevano tenuto. Verso le 18 mi portarono in sala: altre 5 ore e 1 notte in terapia intensiva. Mi svegliai con un'ileostomia e un metro e venti di intestino.

Il 4 dicembre chiamai Rupert la mattina presto, prima che andasse a lavorare, ma il cellulare suonava a vuoto. Mi sembrava un incubo, rivivevo un film già visto. Chiamai la vicina chiedendole se poteva guardare in cortile se c'era la sua auto, nella speranza che fosse già al lavoro. Purtroppo l’auto c'era. Le chiesi di andare giù, portandosi dietro le chiavi di casa mia in suo possesso. Lui le non aprì. Quando entrò, lo trovò sul divano, le disse di non preoccuparsi che era sabato e non andava a lavorare, purtroppo era lunedì, chiamai subito mia sorella che si precipitò con mio cognato. Lo trovarono ancora sul divano, il cellulare suonava, ma lui non rispondeva, non si voleva alzare e, dall'odore, si intuiva che si era fatto la pipì addosso. Era vigile, leggermente su di giri e aggressivo verbalmente. Questa volta non perse conoscenza, ma era più delirante, particolarmente fissato con i ristoranti. Un giorno mi disse che se io ero convinta di essere in ospedale, sbagliavo, comunque ero libera di pensarla come volevo, lui era al ristorante, sì, avevo ragione era su un letto e aveva una flebo, ma gli avevano trovato un posto proprio vicino alle cucine, vicino al tavolo dei suoi colleghi. Un’altra volta mi raccontò che nella notte lo avevano trasferito in un altro posto, un piccolo albergo di montagna, dove si mangiava molto bene. Dal 4 dicembre, fu dimesso a fine febbraio. Io questa volta non ci andai. La mia nuova convalescenza rese la precedente una passeggiata. Questa fu durissima, pesavo 43 kg, ero attaccata alla nutrizione per via parenterale, incontinente, mi reggevo a mala pena in piedi e per i primi 20 giorni il sacchetto per la stomia non si attaccava, per cui ero perennemente sporca e disperata. Un incubo condiviso con mia sorella che per i primi 15 giorni si trasferì a casa mia e mi assistette 24 ore su 24. Lui anche questa volta non ricorderà nulla, se non qualche flash come quando non ricordiamo bene un sogno, ma solo qualche particolare sfuocato. Ricorda, per esempio, di quando lo legarono al letto, solo l'umiliazione dei polsi bloccati, ma non che per cercare delle sigarette, aveva varie volte tentato di scavalcare le sbarre del letto, rischiando di strappare il catetere che collegava la valvola inserita nella testa a quella tolta dall'intestino e appesa ad un'asta e provocare danni irreversibili al cervello.

Questa volta, per me, il suo ricovero fu meno traumatico, forse perché dovevo accettare e gestire una "convalescenza" a cui nè io nè le mie sorelle eravamo state preparate, forse perché avevo una gran rabbia nei suoi confronti. Ancora una volta mi aveva lasciata sola, fisicamente e moralmente. Per fortuna la Lola, che al contrario di mio marito, aveva capito molto bene che stavo male, non mi lasciava un attimo e aveva accettato di buon grado la dog sitter che la portava a spasso due volte al giorno. Ottenni a fatica e, con non pochi fraintendimenti (per esempio l'assistente sociale aveva capito di dover cercare un posto in una Residenza Sanitaria Assistita perché io non accettavo più il suo rientro a casa) il prolungamento di 15 giorni della sua degenza in una clinica di Bologna specializzata in riabilitazione neuro-motoria. Lo andai a trovare una volta sola, pochi giorni prima che lo dimettessero, soprattutto perché convocata dall'equipe sanitaria. Nonostante le infauste previsioni che ci comunicarono - non avrebbe guidato, avrebbe avuto problemi di attenzione e memoria breve, sarebbe quasi certamente rimasto incontinente - a fine maggio, a circa tre mesi dalla dimissione, era tornato a lavorare, l’incontinenza e la deambulazione erano tornati quelli di sempre e i test cognitivi attestarono i risultati ottenuti.

Io stavo meglio, avevo recuperato qualche chilo e un po' di forze, ma il decorso, in attesa di un nuovo intervento e di un quarto taglio per tutta la lunghezza della mia pancia, era ancora lungo e, assurdamente, tutta quella fatica e sofferenza non sarebbe servita a risolvere il problema da cui tutto era partito, il cancro. Lui, a parte qualche capogiro, apparentemente non aveva problemi, chiedeva in continuazione particolari sui suoi comportamenti durante la degenza. Non dev'essere facile convivere con l'idrocefalo, sapendo che, senza avvertirti, i ventricoli del tuo cervello potrebbero iniziare a gonfiarsi di liquido e improvvisamente cominciare a perdere alcune funzioni cerebrali. Comunichi normalmente, ma non sai che giorno è o che ora è. Continui a parlare, ma il tuo è un dizionario privo di contenuti. Non stai male, ma gli altri sì e sarà colpa tua, senza volontà nè ricordo.

Cercammo e cerchiamo così di affrontare insieme una quotidianità di vita, il più normale possibile, anche se vivere assieme, entrambi con una grave malattia, non è facile: è come se tutti e due sapessimo che l'altro ha un amante a cui pensa sempre, giorno e notte, e facessimo finta di niente. Non è che non parliamo dei nostri problemi, con il mio carattere sarebbe impossibile, ma le discussioni, l'ascolto reciproco, lasciano entrambi incompleti, impotenti nel non riuscire a dare all'altro tutto l'amore, l'empatia, la partecipazione che vorremmo, troppo presi da due anni che hanno stravolto la nostra vita e i nostri corpi. Nulla sarà più come prima, ma credo che il tempo e l’amore reciproco ci aiuteranno a ricongiungere i nostri percorsi.

La storia per ora finisce qui, ma vorrei dire ancora alcune cose: il cancro non mi "ha reso più bella" no, proprio no, mi ha reso forse più consapevole, nei confronti della fragilità delle certezze sui valori della vita, del mio corpo, del tempo e dgli affetti. Non era questo il futuro che avevo immaginato per me, per noi. Progettare o immaginare il futuro è un lusso che non mi posso permettere. Cerco di non pensarci, vivendo con occhi attenti e fiduciosi il presente, cercando di rendere più solide e durature le basi per il mio domani.

16 commenti:

  1. Che dire, qualsiasi commento è fuori luogo e inutile, mi sento solo di ringraziarti per questa tua condivisione così intima

    RispondiElimina
  2. Una storia che è l'emblema della brutale differenza tra "spot" superficiali sul tumore e realtà. Non è una storia estrema, ho conosciuto non poche situazioni di malattia difficile rese ancor più drammatiche dalla somma di problemi pre-esistenti o contestuali. Soprattutto perché quando è la donna a star male tutto va in tilt (se Carla non avesse avuto 2 sorelle disponibili…?), perché la donna è il welfare italiano. L'equilibrio tra il bisogno di avere speranza e la consapevolezza che nella migliore delle ipotesi il tumore è un evento traumatico nel corpo e nella psiche è un filo sottile. Per questo l'attivismo è difficile, spesso un percorso di incontro e scontro con sensibilità e situazioni molto diverse: si impara molto strada facendo, così come strada facendo io non finisco mai di imparare il mestiere di professionista a sostegno della salute della donna. Ho imparato che serve più ascoltare che parlare. Che quando si parla è un dovere morale cercare un equilibrio che rispetti la sensibilità di tutti senza cadere in narrazioni stereotipate. Cercare la verità e cercare di comunicarla in modo chiaro e talvolta coraggioso. Perché ancora oggi il vero problema è che le storie di dolore e fatica, le storie che non siano di eroine che vincono sul male sono tabù. Questo non significa non raccontare anche vicende positive: significa farlo in modo diverso, senza eroismi e senza ignorare tutte le altre sfaccettature della realtà. Come chirurga, posso solo essere costernata da una diagnosi di occlusione intestinale avvenuta dopo settimane di grave malessere in cui una donna quasi incapace di alimentarsi è stata lasciata sola, a vomitare tutti i giorni liquami fecaloidi.
    In questa lucida testimonianza c'è davvero molto da riflettere e imparare. E anch'io ringrazio Carla di aver condiviso.

    RispondiElimina
  3. Sei mia sorella e quindi so meglio di altri ciò che hai passato e stai passando, assieme a Rupert; ma non certo come e quanto lo sai tu. Per questo il mio ringraziamento è duplice: perché hai scritto questo racconto così commovente (sorvolando su tanti passaggi di infinita sofferenza e umiliazione) e perché hai dato a tutti noi di famiglia non solo una “prova” ma un esempio di coraggio, di pazienza, di speranza e, soprattutto, dignità. E perché hai messo a disposizione la tua forza e la tua fragilità, come fulcro dell’amore che ci lega: tra noi e, insieme, alla vita.
    Sandra

    RispondiElimina
  4. Cara Carla, sono Rosamaria e conosco la vostra storia, seguita passo passo mentre si svolgeva. Leggerla, però, consecutivamene e così ben sintetizzata mi ha dato un'ulteriore misura della sua pesantezza, della sua complessità e di tanto altro ancora.
    Mi ha anche confermato la tua straordinaria capacità di aderire alla vita, a ciò che propone e che va accettato perchè non c'è scelta alternativa. Il farlo è forse una questione di forza, ma più che altro è un sentire la vita e la forza che ha in sè.
    Anche io ho un cancro, al polmone e non operabile; quando l'ho saputo ho avuto un momento di sbandamento e di angoscia, lo definisco momento perchè non mi è durato a lungo, ho reagito imparando lentamente a convivere con questo nuovo inquilino che, per ora, non mi dà alcun segnale. In queti giorni sono raffreddata e ho un pò di tosse, confesso che mi sono congratulata con me stessa perchè non ho fatto alcun collegamento di causa-effetto.
    Non so come reagirò se e quando le cose dovessero peggioarre, ossia se il tumore dovesse dare prove evidenti della sua esistenza. Sono reazioni che si possono solo ipotizzare per poi andarle a verificare sul campo. L'unica cosa utile è vivere nel qui ed ora, come stai facendo anche tu. Il resto....?
    Durante tutta la tua malattia ti ho pensata tanto con affetto e solidariaetà.
    Chissà se un giorno ci conosceremo personalmente, per ora mando un grande abbraccio virtuale a te e a Rupert. Siete una grande coppia.
    Rosamaria

    PS: spero che non ci siano errori, vedo male, mi devo operare alle cateratte.

    RispondiElimina
  5. Carla, mi permetto di scrivere cara perché é così che ti percepisco, leggere la tua vita che da sassolino diventa sempre più valanga porta inevitabilmente a riflessioni profonde sul proprio personale stile di vita superficiale. Vita leggera che può diventare piombo a un batter di ciglia... E tutti giù per terra ... Ma nel girotondo della vita si intravede la risalita e te la auguro con tutta me stessa. Più ti leggevo e più mi immaginavo il finale: Carla e Rupert insieme, consapevoli che oggi è la fortuna di esserci si vivono immensamente tanto e ancora di più, ogni giorno nella gioia di poter continuare a volersi bene a spasso con Lola. Grazie, Carla da oggi sarai anche un pò in me.

    RispondiElimina
  6. Ciao Carla, una storia che ho letto e poi riletto con il fiato sospeso. Mi sono commossa non solo per le vicende incredibili che hanno coinvolto te e tuo marito ma anche e soprattutto per la tua forza nell'affrontare situazioni così dure e per il coraggio di raccontarle.
    Auguro a te e a Rupert un percorso in risalita, mano nella mano.
    Marina

    RispondiElimina
  7. Grande Carla! Hai ragione, teste calve e facce sorridenti non vanno d'accordo, per quanto umanamente comprensibili. Ogni malattia, credo, deve essere affrontata giorno per giorno con serena dignità, con le proprie forze e l'affetto degli altri nella consapevolezza che ognuno di noi fa quello che può. In ogni caso, c'è una sacher speciale che ti aspetta non appena potrai gustarla briciola per briciola.
    GraZia

    RispondiElimina
  8. Cara Carla, credo tu conosca l’amicizia che mi lega a Sandra da una quindicina d’anni. Ho così, potuto seguire gli eventi dolorosi che hanno colpito te e Rupert quasi in contemporanea, un fatto che ha dello straordinario e si spiega soltanto con il profondo legame che vi unisce.
    E’ bello che tu abbia desiderato condividere con altre persone che hanno vissuto o vivono il cancro, sei esempio di forza, determinazione e coraggio per chi non trova la tua stessa fiducia nella vita, contribuendo così a peggiorare la propria situazione. Hai scritto che nessuno ti ha mai detto: “Fatti forza, coraggio!” Da come hai affrontato il tutto, è chiaro quanto il coraggio e l’energia per farcela siano parte integrante della tua natura, ogni persona che ti è stata vicina, medici compresi, ha capito che non avevi bisogno di incoraggiamento: in te c’era tutto ciò che serviva!
    Anch’io ho una cagnolina, amata e considerata, come la vostra Lola. Si chiama Tea, ha 11 anni. Io ho un aneurisma all’aorta ascendente toracica, di 5 cm: una spada di Damocle sulla mia testa e, qualora arrivasse a 5,5 cm mi dovrei operare a cuore aperto. Ho 78 anni, Carla, ma non sono pronta per lasciare questo mondo, i miei figli, mia nipote e “soprattutto” non posso lasciare la mia piccola Tea. Non so ancora cosa proverò nel momento in cui dovesse arrivare l’emergenza, ma ti confesso: ho paura. Leggendo il tuo vissuto e quello di Rupert in un’unica soluzione, ho capito che la tua forza non ce l’ho.
    Guarirai completamente Carla! So che devi affrontare un’altra operazione per l’intestino, ma sono convinta che tutto andrà bene e tu a poco a poco, potrai riprendere anche la normale funzionalità. E Rupert? La sua situazione è molto complessa, speriamo che non abbia ricadute di alcun genere e possa starti accanto quando affronterai il nuovo intervento, all’inizio del prossimo anno.
    Carla, ti sembrerà strano, ma ti voglio bene e incrocio le dita affinché, la vita ti restituisca in felicità il tempo che hai dovuto dedicare alla sofferenza.
    Ti abbraccio, Mary

    RispondiElimina
  9. Cara Carla,
    pur sapendo dei tuoi problemi da Sandra, ne ignoravo i particolari. Che dire? In situazioni come queste ogni commento può apparire banale, ogni incoraggiamento può sembrare ipocrita, ogni tentativo di manifestare vicinanza può mascherarsi da pietismo. Sono stato a lungo a ragionare se fosse preferibile il silenzio ai rischi di cui sopra. Poi ho pensato che se hai trovato l'energia per scrivere ciò che hai scritto con dignità e onestà, è perché avevi dei motivi per condividere la tua storia, perché desideravi che fosse letta. E allora voglio farti sapere che l'ho letta. L'ho letta fino in fondo, e non nascondo la pena che ho provato pensando alle difficoltà quotidiane di una coppia colpita così duramente, eppure ancora pronta a ricominciare ogni giorno con coraggio. Non so bene come contribuire a tener vivo questo coraggio, ma conosco un caso in cui una crudele malattia ha trovato un giovanissimo avversario talmente pieno di vita e di saggezza da affermare fino in fondo che "Non c'è sconfitta nel cuore di chi lotta". E voi due state lottando insieme, malgrado le enormi difficoltà. Siete insieme per scelta e per amore, malgrado le enormi difficoltà. E se non c'è sconfitta nel cuore di chi lotta, può esserci solo vittoria nel cuore di chi ama.
    Giovanni

    RispondiElimina
  10. Carla, leggo ora e ti ringrazio di questa condivisione. Non avevo mai immaginato, nei pochi momenti in cui siamo state in contatto, un disastro di questa portata. Forse tu non avevi voluto che io capissi tutto, ma ora mi resta una pena, di non aver potuto fare di più, dirti parole più utili.. non so... Ti abbraccio

    RispondiElimina
  11. Carla, ho letto tutto d'un fiato delle tue sofferenze e, giunta alla fine, sono tornata all'inizio e ti dico "Fatti forza", e ti voglio pensare vincitrice, insieme al tuo Rupert ed alla tua Lola.
    Rosita

    RispondiElimina
  12. Io mi trovo dalla parte sbagliata, forse, anche se dall’altra non avrei reagito nel modo che ha scelto mia moglie. Un elenco infinito di fragilità giornaliere scorre le nostre vite, e ad un certo punto si rompono in eventi letali: spesso malattie, ma non solo. Dire che capisco e maledico una simile sequenza di eventi, piuttosto che benedirla per averci aperti gli occhi è superfluo. Io comunque continuo a stare dalla parte del nostro corpo, rattoppato, rabberciato, ma mai inutile. Sulla superficialità e l’immoralità di cure e medici, con le dovute e meravigliose eccezioni, sai come la penso, e ho avuto modo di testimoniarlo, scriverlo e ribadirlo pubblicamente da decenni. Sul perché ci tocchi un simile concentrato di tragicità sto ancora aspettando le migliori prevenzioni a questa vita: potevamo fare scelte diverse, a posteriori, di lavoro, di vita, di tutto … ma non ci si salva così! … Ma rendere visibili a tutti attraverso questo tipo di esperienze quanto dura può essere la vita … beh, un sano realismo anti consumistico servirebbe come testo scolastico. Con profonda stima, affetto e ammirazione, …

    RispondiElimina
  13. Ringrazio davvero di cuore tutti, per la partecipazione e le parole ricevute e sincere.Vorrei però dirvi che non l’ho fatto solo per me, anche se scriverlo mi ha aiutato molto, perché sintetizzare dolorosi eventi personali è sempre molto faticoso, ma facilita la pulizia interiore da sentimenti negativi. Ho voluto raccontere la mia storia, pur se intima, quale gesto per affermare e ridare il valore originario all’ottobre rosa, ormai evento sempre più commerciale e facile strumento catartico per le coscienze e, cercare di far sentire quelle donne e quegli uomini, che non si sentono guerrieri, forti o arricchiti dal cancro a sentirsi parte di in umano e comune sentire.
    Storie come la mia ce ne sono purtroppo tante altre e certo più complesse o drammatiche, che restano in silenzio o sconosciute, perché schiacciate e lasciate in solitudine, dalle tante a lieto fine, da allegre foto di modelle calve e di tette al vento. Ben venga la positività e il lieto fine, sono la prima a sperarlo e a crederci, ma se fatto senza baldanza ed egocentrismo, nel rispetto di chi non ce l’ha fatta o non ce la farà. Grazie a tutti. Carla

    RispondiElimina
  14. ciao Carla ti avevo scritto già qualcosa ma non è arrivato niente, allora ci riprovo.
    Io mi chiamo come te, il nostro nome vuol dire donna libera e forte e credo che tu stia onorando al massimo questo nome, anche se, come scrivi tu sarebbe così confortevole abbandonarsi all'aiuto degli altri . La vita è stata dura con te, ti ha messa alla prova ma tu ce l'hai fatta e sono sicura che ce la farai ancora perché sei in credito con la vita, quindi forza forza forza! Io posso solo abbracciarti forte e dirti che sento di volerti bene. Non ti arrendere mai.
    Carla

    RispondiElimina
  15. Cara Carla ti faccio tantussimi auguri per questo nuovo episodio. Ti abbraccio con affetto e solidarietà

    Rosamaria

    RispondiElimina