venerdì 22 novembre 2019

Di cancro al seno, maternità e scherzi del destino

Una nostra lettrice, che preferisce rimanere anonima, ci ha inviato questo testo. Lo pubblichiamo volentieri perche` ci sembra offra spunti di riflessione sul diritto a scegliere di non sottoporsi a terapie come quella ormonale che, e` bene ricordarlo, non "curano" il cancro al seno ma si limitano a ridurre le probabilita` di recidiva, soprattutto locale, e comportano effetti collaterali pesanti tra cui, nel caso del tamoxifene, anche un aumento del rischio di cancro dell'endometrio.

Io e il mio compagno viviamo insieme ormai da moltissimi anni. Figli non ne sono arrivati. E non abbiamo mai voluto forzare la situazione. Per noi è stato naturale accettare che la natura volesse così.

Poi un giorno, quando ormai avevo più di 40 anni arriva, totalmente inaspettata, una gravidanza. Un fulmine a ciel sereno. Ero talmente confusa da non sapere se essere felice. Diciamo che era una felicità piena di paura.

Dopo alcune settimane, in modo altrettanto inaspettato arriva l’aborto spontaneo, doloroso per il corpo e per l’anima. Era come se avessi potuto intravedere da una porta socchiusa il mondo della maternità, per qualche istante appena. Poi, un colpo di vento ha fatto sbattere la porta e sono rimasta chiusa fuori, attonita.

Ero più confusa di prima.

Diciamo che non ho avuto tanto tempo per riflettere sull’accaduto, sia perché il dolore era ancora troppo forte e sia perché, dopo alcuni mesi, a completare il quadro, è arrivata la diagnosi di cancro al seno.

Visite, intervento, terapie oncologiche e nel frattempo il simpatico spettro della terapia ormonale di 5/10 anni che, vista l’età, avrebbe cancellato definitivamente la possibilità di avere figli.

In realtà ci avevo già rinunciato da tempo ma quella gravidanza lampo mi aveva aperto una possibilità inaspettata. Quindi che fare? Mi sono consultata con un centro specializzato che, come pensavo, mi ha confermato che le possibilità di una gravidanza erano bassissime.

Ma non me la sono sentita di essere io a sbattere la porta. Ho lasciato fare anche in questo caso alla natura e ho rifiutato la terapia ormonale.

Ormai sono passati alcuni anni. Figli non ne sono arrivati e recidive o metastasi nemmeno. Prima che passino i vent’anni dalla diagnosi manca ancora parecchio tempo, ma vivo alla giornata e per ora va bene così.

Certo, mentirei se dicessi che è tutto facile. Ho rinunciato alla terapia per un figlio che non è mai arrivato. A volte sembra normale, altre volte tornano a galla desideri e rimpianti. Non ne faccio certamente una tragedia, in fondo finora sono stata fortunata rispetto a molte altre donne. Ma ho ancora bisogno di tempo per elaborare, la cicatrice non si è ancora rimarginata.

Per affrontare questa scelta mi sono protetta. Pochissime persone conoscono il motivo per cui ho rifiutato la terapia. Non ero pronta ad accettare facili giudizi, certamente in buona fede, ma taglienti come lame. E non sono pronta ad accettarli nemmeno ora.

Però sento di dover condividere la mia storia. Certo, un po’ per liberarmene (le Amazzoni furiose mi perdoneranno per questo), e un po’ per portare un punto di vista. Per far sentire che non ci sono strade tracciate. Che ognuna di noi, nel suo viaggio, percorre strade diverse.

E che le scelte di ognuna di noi sono sacre e come tali vanno rispettate e non giudicate. Possiamo confrontarci, informarci, ascoltare compagni, medici, amici e consulenti. Ma alla fine solo il nostro giudice interiore sa cosa è giusto per noi, ed è solo ascoltandolo che riusciamo a convivere ogni giorno con le conseguenze delle nostre scelte.

domenica 10 novembre 2019

Ha da passà Ottobre. Una proposta

Anche quest’anno si esce stordite dal mese in rosa.

Dopo qualche considerazione una proposta su cui lavorare in attesa del prossimo ottobre.

Il tumore al seno è più che rilevante per le donne e un tema più che importante di sanità pubblica e sociale. I numeri sono veramente significativi e necessitano ben più che semplice attenzione: 53.000 nuove diagnosi anno (fonte Numeri del Cancro 2019). Alla domanda “conosce tra parenti e amici donne con diagnosi di tumore al seno”, circa il 70% di una coorte di donne sane  partecipanti a uno studio sullo screening mammografico ha risposto sì (studio DonnaInformata).

Con questi numeri è evidente che l’attenzione non può che essere elevata, a tutti i livelli – personale e collettivo.
Con questi numeri c’è da chiedersi a che punto sia la ricerca sulle cause del tumore, perché non ci sia attivo un registro di patologia, chi decide l’agenda della ricerca, quanto sia soddisfacente l’informazione cui hanno accesso le donne, perché i programmi di screening non siano ugualmente distribuiti sul territorio. Le terapie farmacologiche hanno portato in questi anni ad una maggior sopravvivenza, ma molte donne ricadono anche dopo molti anni, per molte donne che ricadono la qualità della vita è il problema. E il vaccino? 
Con questi numeri qual è il valore aggiunto dei nuovi farmaci? Al momento su clinicaltrials.gov sono registrati circa un centinaio di trial fase 2 e 3 attivi in Italia, la maggior parte di sponsor aziendale, dov’è la ricerca indipendente? 

La narrazione sul tumore al seno necessita di ridiscussione, soprattutto per quella dei media, degli Istituti di Ricerca, delle Aziende nonché delle Associazioni. Le capacità di reazione delle donne sono importanti e stupefacenti, le singole esperienze meritano spazio e rispetto per le diverse sfaccettature di volta in volta sottolineate ma, nel complesso, la narrazione è spesso enfatica, di carattere paternalistico e non di condivisione o di partecipazione. Spesso è più un affidarsi che non un prenderne parte. I messaggi sono molto vari, spesso con scarso rispetto delle prove scientifiche disponibili. 

I tanti gruppi di aiuto nati sulla esperienza di tumore al seno sono esemplari, fanno molto lavoro locale – spesso l’unico riferimento, soprattutto nelle piccole realtà. Il coordinamento è tuttavia difficile, la formazione di chi si interfaccia a livello locale o meno con le Istituzioni è molto differente, gli inviti a collaborare vanno ben soppesati tra forma e sostanza. Molte donne non si riconoscono direttamente in queste realtà. 

Gli interessi verso la malattia: ci sono e sono tanti. Se guardiamo al panorama italiano non c’è alcun dubbio che sia ampia la schiera di operatori sanitari che si prodigano per offrire le migliori cure e la migliore qualità della vita, Tanti ne abbiamo conosciuti, così come valida, anche se territorialmente disomogenea, l’esperienza delle breast unit. Tuttavia va riconosciuta anche l’esistenza di un mercato che fortemente influenza le scelte delle donne sia nell’approccio alla diagnosi precoce, sia sul tema della prevenzione primaria sia al momento delle scelte del centro cui rivolgersi. Dalla spinta ad esami di diagnosi precoce in fasce di età in cui non c’è dimostrata efficacia, alla spinta da parte di aziende farmaceutiche per attivare collaborazioni con le associazioni di pazienti, alla scarsa trasparenza dei rapporti con gli sponsor aziendali (associazioni, medici e società scientifiche).

E allora una proposta.

Questo mese in rosa che ci inonda in modo disordinato di informazioni, storie di malattia, speranze, patemi e angosce, spinge a esami inutili, mette la cittadina in uno stato di ansia e preoccupazione è possibile trasformarlo in una occasione per la ricerca scientifica? Sarebbero disposti tutti gli attori di questa rappresentazione a convogliare sforzi e operatività per la creazione di un fondo unico indipendente per la ricerca dedicato al tumore al seno? Si potrebbe lavorare veramente congiuntamente per arrivare nel 2020 con un modello innovativo di mese in rosa? E come stabilire le priorità per il finanziamento dei progetti? Con metodo: chiedendolo alle donne, alle associazioni e ai clinici, stabilendo un elenco di priorità e destinando i fondi tramite un modello di assegnazione trasparente e indipendente.

Grazia De Michele e Paola Mosconi

Commenti, adesioni e proposte a: 2019rosapink@gmail.com

Le opinioni espresse dalle autrici sono personali e non riflettono necessariamente quelle delle Istituzioni o Gruppi di appartenenza.

lunedì 14 ottobre 2019

Vania Sordoni, matematica e attivista contro una malattia che fa dodicimila vittime ogni anno

Questa mattina sono stati celebrati i funerali della nostra cara Vania Sordoni. Vania e` morta di cancro al seno a soli 57 anni. Vania e` stata un'infaticabile attivista per le donne con cancro al seno metastatico, il che vuole dire per tutte noi visto che il cancro al seno, a prescindere dallo stadio alla diagnosi, da luogo a metastasi in circa il 30% dei casi e non e` possibile sapere se si sara` dal lato buono o cattivo della statistica. 
L'anno scorso Vania era stata tra le organizzatrici del flash mob-die in che si e` tenuto a Milano il 13 ottobre in occasione di quella che negli Stati Uniti e` la giornata del cancro al seno metastatico. Qualche giorno prima Andrea Capocci, fisico, insegnante e giornalista l'aveva intervistata. Per una serie di circostanze, l'intervista non era stata pubblicata. Saputo della morte di Vania, Andrea ce ne ha inviato il testo che pubblichiamo qui sotto. 
Ad Andrea un sentito grazie. A Vania tutto il nostro amore.


“Oltre il nastro rosa”, un flashmob contro il cancro
Intervista a Vania Sordoni, matematica e attivista contro una malattia che fa dodicimila vittime ogni anno.
di Andrea Capocci

Ottobre è il “mese della prevenzione contro il cancro al seno”. Queste ricorrenze appaiono spesso rituali e su un tema come il cancro al seno in tante e in tanti pensano di sapere già abbastanza. In fondo, tra i quaranta e i settant’anni di età la maggior parte delle donne si sottopone a esami preventivi gratuiti e un giorno sì e l’altro pure arrivano news su farmaci innovativi e guarigioni in crescita. Ma i dati dicono anche altro, e nell’ottimismo di cui siamo avidi tendiamo a ignorare le notizie che non ci piacciono. Per sensibilizzare su un tema piuttosto scomodo, sabato 13 alle 12 a Milano, in piazza Gae Aulenti, si svolgerà un flashmob sotto lo slogan “Oltre il nastro rosa”. I dettagli dell’appuntamento sono su Facebook. Per spiegare le ragioni della mobilitazione, abbiamo parlato direttamente con Vania Sordoni, matematica dell’università di Bologna, malata di cancro al seno metastatico e una delle organizzatrici del flashmob.

Come nasce la mobilitazione?

Nasce su Internet, da un gruppo Facebook a cui partecipano oltre duecento donne malate di cancro al seno metastatico per scambiare informazioni e aiuto psicologico. Ci siamo rese conto che la nostra è una realtà un po’ nascosta, che non si vuole vedere volentieri.

Nel 2010 Berlusconi annunciò che il suo governo avrebbe sconfitto il cancro in tre anni. In effetti, a ritmo quotidiano ci sono notizie ottimistiche sulla lotta al cancro: nuovi farmaci, nuove terapie. La realtà?

Le statistiche parlano di un tasso di sopravvivenza dell’87% dopo cinque anni e dell’80% a dieci, e farebbero pensare che guarire sia facile. In realtà, i farmaci hanno spinto in avanti il periodo in cui il tumore diventa metastatico, per cui molte donne risultano guarite dopo cinque o dieci anni ma non lo sono affatto. Inoltre, le percentuali sono alzate dai molti tumori “in situ” (cioè localizzati) rilevati con lo screening mammografico, che non metastatizzano. Nel complesso, per cancro al seno metastatico muoiono circa dodicimila donne l’anno.

C’è un legame tra l’eccesso di ottimismo e la ricerca di cure “alternative” ma illusorie?

La mortalità per il tumore al seno non è diminuita molto dal 2000 a oggi. Nel frattempo c’è stata una diffusione delle cosiddette medicine “alternative”. Spesso sono promosse da veri e propri ciarlatani, che convincono molte donne di essere in grado di aumentare l’efficacia delle terapie a cui si sottopongono. Noi invitiamo tutte a confrontarsi con la letteratura scientifica, ma è difficile impedire che molte pazienti si affidino a questi personaggi. Il metodo “Di Bella” non è affatto scomparso, anzi.

Allo screening mammografico si sottopongono i tre quarti delle donne italiane, con punte vicine al 100% al nord. Con quali risultati?

Grazie allo screening si individuano molti tumori in più. Si prevede che tra il 2017 e il 2018 i nuovi casi aumentino da 50500 a 52800. Aumentano le diagnosi al nord rispetto al sud. Si attribuisce il dato a una presunta migliore qualità della vita, ma temo che dipenda solo dalla bassa percentuale di donne che si sottopone allo screening al sud (meno del 60%, n.d.r.). Tuttavia, ci si ammala prima e dopo l’età dello screening, tra un esame e l’altro, e in molti casi i tumori possono metastatizzare anche prima di ingrandirsi e diventare visibili. Per questo lo screening non abbassa di molto la mortalità. Bisognerebbe fare prevenzione, invece c’è solo la diagnosi precoce. Sulla prevenzione c’è poca ricerca se non sul piano genetico, e si sa ancora troppo poco delle cause dei tumori.

Cosa chiedete al sistema sanitario?

Per una donna ammalata di cancro al seno metastatico, il percorso terapeutico è spersonalizzante. Non abbiamo a che fare un medico, ma con team di sei o sette persone, di cui magari tre sono specializzandi inesperti. Capiamo le ragioni organizzative, e quando si tratta di gestire la routine non è un problema. Ma chi ha un cancro metastatico vive molti momenti di stress: i risultati degli esami sono spesso complicati, e ci sono frequenti decisioni importanti da prendere. In quel caso, vorremmo avere a che fare con un medico di riferimento che conosce il caso e lo segue, non con il dottore di turno. Perciò, molte si rivolgono alla sanità privata, con un costo economico molto elevato.

È una malattia che colpisce le donne. Questo influisce sulla sua percezione sociale?

Se ne sottovalutano alcune conseguenze. Ad esempio, moltissime donne devono lasciare il lavoro, perché le terapie non sono compatibili, e ne subiscono le conseguenze sul piano umano ed economico. Ma dato che si tratta di lavoro femminile, questi effetti sono sottovalutati, mentre richiederebbero maggiore attenzione.

Siete pazienti, ma avete chiesto che al flashmob non si mostrino magliette o simboli delle associazioni dei pazienti. È una critica al mondo delle associazioni.

No, anche se forse alle associazioni rimproveriamo l’eccessiva enfasi sui benefici della diagnosi precoce. Però sottolineiamo un problema: una donna malata di cancro metastatico è un problema anche nelle associazioni di pazienti che, anche comprensibilmente, cercano di convincere che dal cancro si guarisce. Per una donna guarita da un cancro al seno e che fonda un’associazione per aiutarne altre, una donna metastatica è un incubo, ancor più che per una donna sana. Perché ricordiamo che la malattia può tornare, anche dopo anni. Perciò veniamo spesso messe ai margini. Noi vorremmo che nessuna donna abbassasse la guardia, e che servizi e assistenza tenessero conto anche di chi si trova nella nostra situazione.

Per esempio?

C’è la questione dei trial clinici, le sperimentazioni sui nuovi farmaci. Entrare in un trial per noi è una fonte di speranza importante. Però lo sviluppo di un farmaco dura anni e entrare in queste sperimentazioni è difficile. O si è seguiti da una struttura che partecipa a una sperimentazione, o difficilmente un medico propone alla paziente un trial che si svolge lontano, perché la gestione diventa troppo onerosa. Così molte di noi vagano da una struttura all’altra, sperando di trovare quella giusta al momento giusto, quello in cui si avvia una sperimentazione. Sarebbe fondamentale avere un servizio di raccolta e diffusione delle informazioni sui trial accessibile a tutte. C’è un disegno di legge al Senato presentato da Francesca Puglisi nella scorsa legislatura e ora ripreso da Paola Boldrini, e uno analogo presentato alla Camera da Luca Rizzo Nervo, sempre del PD. Vedremo cosa ne farà il Parlamento.

mercoledì 18 settembre 2019

I vent'anni più lunghi

di Ann Zeuner

Sono ospite di questo blog in qualità di ricercatrice nel campo della ricerca sul cancro e di paziente di tumore al seno. Il fatto di vivere sulla mia pelle una malattia che conosco bene dal punto di vista scientifico genera in me una grande varietà di emozioni: a volte la familiarità con le cellule tumorali mi aiuta a gestire meglio la paura, altre volte non ne posso più di passare la giornata a studiarle e vorrei cambiare mestiere (ma non lo faccio, per passione e ostinazione).

L’aspetto con cui trovo più difficoltà nella doppia veste di ricercatrice/paziente è la consapevolezza che le cellule del tumore possono insediarsi in varie parti del corpo e rimanere inattive per molti anni mantenendo però la capacità di risvegliarsi e formare metastasi. Nel caso del tumore al seno è stato dimostrato che le cellule tumorali sparse per il corpo possono risvegliarsi fino a vent’anni dopo l’asportazione del tumore primario [qui], aprendo per noi pazienti una lunghissima prospettiva di insicurezza e paura.

Fino a pochi anni fa si credeva che il processo con cui le cellule tumorali raggiungono altre parti del corpo, chiamato disseminazione, avvenisse a partire da tumori già grandi. Invece è stato dimostrato recentemente che la disseminazione avviene in una fase molto precoce dello sviluppo del tumore, quindi è probabile che tutti i pazienti operati continuino a portare dentro di sé per molti anni un certo numero di cellule tumorali. A livello di ricerca, negli ultimi anni l’attenzione si sta focalizzando sempre di più su queste cellule tumorali disseminate nei vari organi e sui meccanismi che possono risvegliarle o viceversa farle rimanere inattive per sempre.

La terapia ormonale in molti casi è efficace nel mantenere dormienti per molti anni le cellule disseminate nelle pazienti con tumori positivi per il recettore degli estrogeni. Tuttavia, i fattori che possono influenzare la possibilità delle cellule tumorali di risvegliarsi e generare metastasi sono tanti: alcuni non sono stati ancora scoperti, altri si sospettano, altri ancora sono stati capiti, ma l’informazione ci mette molto tempo a passare dagli studi scientifici alle prescrizioni mediche e infine alla vita quotidiana dei pazienti.

 A questo proposito, solo in tempi recenti l’attenzione dei ricercatori si è spostata dallo studiare unicamente la cellula tumorale a considerare ciò che la circonda, il cosiddetto microambiente. E nonostante alcuni scienziati visionari come Mina Bissell lo sostenessero già da alcuni decenni, si è ri-scoperto che il microambiente svolge un ruolo fondamentale nel coadiuvare la crescita tumorale. Ora si sa anche che il microambiente regola la quantità di cellule staminali presenti nel tumore, la possibilità che le cellule tumorali vengano raggiunte dal sistema immunitario e la resistenza del tumore alle terapie.

Da parte mia, aspetto con impazienza che la ricerca biomedica prenda in considerazione, oltre al microambiente, il fatto che esiste un macroambiente rappresentato da tutto il corpo del paziente (incluso il cervello e la sfera psicologico/emotiva) e un super-ambiente costituito dal contesto sociale in cui il paziente vive. E’ probabile che un giorno i meccanismi con cui tutti questi elementi influenzano il rischio che il cancro possa comparire (o ricomparire) saranno riconosciuti e integrati nella pratica clinica. Ma, come dice il futuro re Aragorn prima della battaglia decisiva del Signore degli Anelli, non è questo il giorno.

martedì 13 agosto 2019

Nadia Toffa e il diritto alla salute

La morte di Nadia Toffa ci addolora, come ci ha addolorate quella della nostra Enza Bettinelli, uccisa dal cancro al seno qualche giorno fa, e quella di chiunque perda la vita anzitempo.

Sin dalla diffusione della notizia, è partito il solito circo mediatico. La rappresentazione del cancro e, più in generale, della malattia come battaglia personale domina anche in questo caso offrendo la possibilità di oscurare il fatto che la nostra salute e il diritto a preservarla ben oltre i 40 anni - l'eta` che aveva Nadia Toffa - siano questioni collettive. Un approccio che fa comodo ai molti esponenti politici, inclusa la ministra della salute Giulia Grillo, che, alla ricerca di facili consensi e incapaci di leggere le malattie come fatti sociali, si stanno profondendo in un insulso cordoglio a mezzo social.



Alle metafore guerresche si accompagna, nella celebrazione della cancro-eroina del giorno, l'insistenza sulla sua capacità di sorridere nonostante le terapie sfiancanti. Un'immagine normativa che grava, come spiega la sociologa Gayle Sulik, soprattutto sulle spalle delle donne colpite dal cancro [qui e qui]. Queste ultime devono sì affrontare la malattia con spirito guerriero, ma preservando pur sempre la loro femminilità. Sorridi è dunque il comandamento che si aggiunge, per le donne, al più comune combatti.

Parlare di cancro in questi termini non e` solo inutile. E` dannoso. E` necessario che aprire un serio dibattito sulla nostra salute e sulle sue determinanti socio-economiche e ambientali. Finche` questo non avverra`, vedremo ancora molti giorni come questo, in cui a una giovane donna, di soli 40 anni, e` stato negato il diritto a vivere. 

giovedì 13 giugno 2019

Le Amazzoni Furiose all'Istituto Mario Negri per il diritto a un'informazione corretta sugli screening mammografici

L'11 giugno presso l'Istituto Mario Negri a Milano si e` svolta la presentazione del progetto "Donna Informata-Mammografia" che ha coinvolto 2000 donne e nel corso del quale e` stato messo a punto uno strumento decisionale riguardante i programmi di screening mammografici [qui]. Attraverso diverse schermate, le partecipanti allo studio sono state informate dei possibili benefici e danni che gli screening per il cancro al seno comportano e delle controversie scientifiche in corso riguardanti l'efficacia dei programmi stessi. Un compito arduo, quello che gli autori dello studio si sono assunti, vista la disinformazione sugli screening e il cancro al seno piu` in generale in Italia e di cui ci siamo occupate nel nostro ultimo post [qui].
Alla presentazione dei risultati dello studio e` seguito un dibattito che ha visto la partecipazione di rappresentanti delle istituzioni medico-scientifiche e delle pazienti. A dare voce a queste ultime, Rosanna D'Antona di Europa Donna Italia e la nostra Valentina Bridi. Di seguito il testo dell'intervento di Valentina:

"Ringrazio per questo invito gli organizzatori, perché non è così frequente che quando si parla di cancro al seno e si parla della malattia a livello pubblico venga dato spazio e voce a chi ha un pensiero critico non tanto rispetto alla malattia, ma al modo in cui la malattia viene rappresentata a livello collettivo e al modo in cui le donne vengono informate. Per me è un piacere essere qui. Il punto di partenza dello studio di cui abbiamo parlato, ovvero considerare l’informazione corretta delle donne un obbligo etico, ispira la mia attività di advocacy e quella delle donne che sono qui oggi a rappresentare.

Mi scuso se non avrò la voce ferma, ma per me è sempre difficile parlare del tumore al seno, perché è una malattia che ha sconvolto e cambiato per sempre la mia vita.

Oggi rappresento Le Amazzoni Furiose, un collettivo di donne nato nel 2012, inizialmente come blog personale di Grazia De Michele che oggi non ha potuto essere qui con noi. Grazia è una ricercatrice e storica della medicina che ha incontrato la malattia all’età di 30 anni e all’età di 30 anni  si è scontrata con quella che è la rappresentazione e la narrazione collettiva dominante della malattia, che non rispecchia il vissuto di molte donne che si trovano a viverla. Una narrazione caratterizzata da un atteggiamento tranquillizzante, banalizzante, anche di speculazione, di strumentalizzazione e sessualizzazione.

Dalla sua esperienza di malattia Grazia ha portato in Italia il pensiero e l’attivismo di Breast Cancer Action, un’associazione americana di attiviste che ha a sua volta come mission quello di informare correttamente le donne. Che cosa distingue Breast Cancer Action? Il fatto di non ricevere nessun tipo di finanziamento né da aziende farmaceutiche, né da aziende che da un lato a volte sostengono la ricerca sul cancro al seno e dall’altro sono responsabili, attraverso la loro politica commerciale, dell’aumento dell’incidenza della malattia.. Questo aspetto di cui in Italia non si parla praticamente mai prende il nome di “pinkwashing” e rappresenta il modo in cui a volte la malattia e la sofferenza delle donne viene sfruttata per fare profitto.

Della stessa “famiglia” di  Breast Cancer Action fa parte anche Sharon Batt che è stata ospite qui in Istituto lo scorso anno proprio a parlare delle relazioni pericolose esistenti fra le associazioni  di pazienti  e i finanziamenti che le stesse ricevono da aziende farmaceutiche  e da aziende con comportamenti quanto meno dubbi. Questo aspetto è per me fondamentale ed ha a che fare con il conflitto di interessi. Andrebbe dichiarato quando si parla di tumore al seno se in qualche modo le persone che ne stanno parlando e che si stanno assumendo anche la responsabilità  di informare le donne hanno un conflitto di interessi legato alla malattia per dei finanziamenti che possono ricevere. Sicuramente non è il nostro caso.

Sono finita sul blog quando anch’io, poco più che trentenne, ho incontrato il cancro al seno e mi ha colpita che cercasse di coprire un aspetto centrale ma di cui si sente poco parlare: il fatto che le donne hanno diritto ad essere informate correttamente sulla malattia. Il problema non è che le donne non sono informate, ma che sono informate in maniera scorretta, distorta, proprio da chi avrebbe l’obbligo etico di dare delle informazioni corrette.

Prima di ammalarmi ero una ragazza con un livello di istruzione specialistica e un’attitudine ad informarmi ed approfondire, eppure la mia idea della malattia era profondamente distorta. Credevo che un tumore al seno ci mettesse anni a svilupparsi e che la sopravvivenza così come l’invasività delle terapie fosse strettamente legata alla precocità della diagnosi. Purtroppo ho imparato sulla mia pelle che non è così. L’altra convinzione che avevo e credo sia comune a molte donne era che di tumore al seno non si morisse più o si morisse molto poco.

Oltre che con la malattia mi sono scontrata  anche con i dati reali sulla malattia che molto spesso invece vengono diffusi in modo parziale ed edulcorato. Quante volte la sopravvivenza a 5 anni viene spacciata come guarigione? Sappiamo benissimo che nella stragrande maggioranza dei tumori al seno la sopravvivenza a 5 anni purtroppo significa molto poco, perché spesso la malattia recidiva e porta alla morte dopo i 5 anni. Tutte queste cose le ho imparate sulla mia pelle e mi sono resa conto che non è che io non fossi informata, ma che noi donne veniamo talmente bombardate da un certo tipo di informazione che diventa difficile avere un pensiero critico a riguardo.

E’ stato pubblicato l’anno scorso sul British Medical Journal uno studio sull’informazione delle donne in merito agli screening e al rischio di ammalarsi. Questo studio riguardava donne  provenienti da diversi paesi europei e le donne italiane sono risultate le meno informate. Una donna italiana su due tra quelle che hanno partecito è convinta che sottoporsi a un esame di screening le eviti di ammalarsi e quindi la protegga dalla malattia. E’ colpa delle donne? O forse le donne  e io per prima rientravo tra queste donne, ricevono un’informazione non corretta da parte di chi le dovrebbe informare?

Sapendo di dover essere qui oggi ho fatto una ricerca molto naif sul web, come potrebbe fare chiunque, per provare a vedere che tipo di informazioni può trovare una donna. Non farò ovviamente nomi, ma i principali enti scientifici e le associazioni di volontariato e di pazienti che si occupano di tumore al seno consigliano alle donne a una visita senologica con ecografia annuale a partire dai 25 anni, una mammografia annuale a partire dai 40 e dai 45-50 in poi lo screening biennale. Non c'è nessuna evidenza scientifica che anticipare la mammografia a 40 anni con cadenza annuale diminuisca la mortalità. Questo è molto importante da dire. Le controversie di cui si è parlato oggi  sono controversie che riguardano la fascia di screening dai 45/50 ai 70 nella quale, pur con tutti i limiti, viene indicato che un beneficio di sopravvivenza ci possa essere. Sotto questa fascia di età non ci sono indicazioni per lo screening, eppure le donne ricevono qiuesto tipo di informazioni. 

Mi ha molto colpito uno strumento che si può trovare on line su un portale che è il portale di riferimento per la donna che vuole informarsi sul cancro al seno in cui, indicando la propria età, si visualizza la “prevenzione” consigliata.  Indicando i 40 anni di età e un rischio normale viene consigliata una mammografia annuale e non cè nessun accenno a possibili rischi e danni. Io condivido molto questa parola che è stata usata in mattinata: danni. C’è un principio sacro in medicina: “First, do not harm”. Prima di tutto non devo danneggiare il mio paziente.  C’è un po’ quest’idea, che è un’idea legata al genere e legata al modo in cui viene raccontata la malattia che riassumerei con un pensiero tipo: “Tanto che danno ne posso avere?!?”. In realtà sottoporre una donna ai trattamenti per il cancro al seno, trattamenti che incidono pesantemente sulla qualità di vita delle donne, senza che ve ne sia la necessità  è un danno enorme. Allo stesso tempo viene creata una sovrapposizione fra i concetti di diagnosi precoce e prevenzione. Anche questa non è certo un’idea bizzarra delle donne, ma è un’idea che è stata sostenuta e rinforzata e continua ad essere sostenuta da chi invece dovrebbe informarle correttamente. Si può leggere in diversi portali e siti di settore che la donna può ridurre il suo rischio di ammalarsi sottoponendosi agli esami di screening previsti per la sua fascia di età. Questa è un’informazione colpevolmente scorretta.

Alcune personalità di riferimento in ambito senologico hanno parlato per anni di mortalità zero, veniva indicata come deadline il 2010: entro questa data il tumore al seno doveva essere sconfitto e quando non si è riusciti l’asticella è stata spostata al 2020. Gli ultimi dati Istat sulla mortalità parlano di oltre 12000 donne che perdono la vita a causa del cancro al seno in Italia ogni anno.
La verità è che nessuno vuole più associare la parola morte alla parola cancro al seno.

Il nostro punto di vista, come attiviste e come rappresentanti disinteressate delle pazienti, è che solo nel momento in cui si prenderà consapevolezza dei dati e della situazione reale si potrà iniziare a cambiare questa realtà.

E’ molto difficile esprimere questi pensieri. Spesso ci sentiamo dire: “Ma allora cosa diciamo alle donne, di non fare la mammografia?”. Non è assolutamente questo il nostro messaggio. Il nostro messaggio è dire alle donne che purtroppo sottoporsi alla mammografia non elimina il rischio di morire di cancro al seno, ma soprattutto che la politica diagnosi precoce-mortalità zero ha ormai dimostrato la sua inefficacia. Ci sono tumori piccoli capaci di dare metastasi nel giro di pochissimo tempo e tumori grandi che sono perfettamente curabili e guaribili con le terapie già oggi a disposizione. La vera strada è la ricerca di terapie meno tossiche e più efficaci e la ricerca delle cause della malattia.

Chiudo con una frase che mi sta molto a cuore di Barbara Brenner, a lungo direttrice esecutiva di Breast Cancer Action, e che si trova in uno dei suoi scritti circa il rapporto fra speranza, politica e cancro al seno:

“La polio era considerata un’emergenza sanitaria quando 50.000 persone all’anno si ammalavano e 3.300 ne morivano. Cosa ci vorrà perché il cancro al seno riceva lo stesso tipo di attenzione? CI vorrà che tutte le donne che si sono ammalate e quelle a rischio (ossia tutte le donne) si facciano sentire circa il bisogno di cure e prevenzione”.

Grazie.”

domenica 14 aprile 2019

Gli screening mammografici non sono prevenzione. Basta con la disinformazione

Il nostro ultimo post e` stato condiviso su Facebook da Non Una Di Meno Milano [qui]. Ne e` scaturito un dibattito che ha evidenziato, ancora una volta, la disinformazione sul cancro al seno di cui le donne sono fatte oggetto in Italia e a cui contribuiscono anche le iniziative di Fondazione Veronesi e simili con tutte le loro volute ambiguita`. Come al solito, ci siamo trovati di fronte a persone convinte che la "prevenzione" possa tutto contro il cancro al seno. Per "prevenzione" si intendeno nel nostro paese i programmi di screening mammografici che, nella maggioranza delle regioni, consistono nell'esecuzione di una mammografia ogni 2 anni per le donne di eta` compresa tra i 50 e i 69 anni.

L'abbiamo gia` detto, lo ribadiamo e continueremo a farlo: i programmi di screening non prevengono nulla. Prevenire significa fare in modo che un evento non si verifichi e una mammografia, come qualunque altro esame diagnostico, puo` solo identificare la malattia quando gia` e` presente.
Sull'efficacia degli screening mammografici, inoltre, esistono da molto tempo fortissimi dubbi sollevati da piu` parti nella comunita` scientifica internazionale.

E` di qualche giorno fa un articolo uscito sul British Medical Journal in cui una dottoressa di medicina generale si chiede "Devo convincere i miei pazienti a fare le mammografie?" [qui] La dottoressa spiega l'esistenza di un programma che prevede incentivi economici per i medici che riescono a convincere un maggior numero di pazienti ad aderire ai programmi di screnning. Per il seno, scrive la dottoressa, lei non se la sente: "l'evidenza dei suoi benefici e` molto meno chiara" rispetto allo screening per il cancro all'intestino o per quello della cervice uterina. E cita una lettera di Michael Baum, chirurgo senologo di fama internazionale, che di recente ha scritto al quotidiano inglese The Times che "lo screening sembra essere un gioco a somma zero in cui per ogni morte per cancro al seno evitata c'e` una morte per sovrattrattamento di pseudocancri", oltre all'ormai corposa messe di studi sul tema, menzionati anche nella brochure di Breast Cancer Action "Devo fare la mammografia?" che abbiamo tradotto anni fa [qui].

A fronte di tutto questo, la disinformazione sugli screening regna sovrana in Italia e non solo. Sempre il British Medical Journal ha pubblicato nel 2018 i risultati di uno studio condotto in 5 paesi europei, Repubblica Ceca, Germania, Regno Unito, Italia e Svezia, da cui e` risultato che il 59,2% delle donne che formavano parte del campione sovrastimavano il loro rischio di ammalarsi di tumori femminili (seno, endometrio, cervice uterina e ovaie) e soltanto il 26.5% era consapevole che lo screening mammografico comporta benefici e rischi [qui]. Il 50,9% delle italiane intervistate, inoltre, pensava che lo screening mammografico previene il cancro prima che cominci. Un risultato che non ci sorprende visto il modo in cui medici, enti di ricerca, ministri e aziende che vendono prodotti sfruttando la malattia parlano del cancro al seno. Un danno non di poco conto e a cui bisogna porre un freno. Come? Ad esempio partecipando a un incontro organizzato dall'Istituto Mario Negri che si terra` a Milano l'11 giugno che, si legge nella presentazione, parte dalla "necessità di informare correttamente le donne sullo screening mammografico, considerando questo aspetto come un obbligo etico." E informare correttamente significa che "nei libretti e negli strumenti informativi sullo screening mammografico [devono] essere esplicitati in modo corretto tutti i potenziali benefici e i danni, nonché i dati incerti e le controversie ancora oggi presenti tra i ricercatori" [qui].


domenica 7 aprile 2019

Non solo il Congresso Mondiale delle Famiglie. Anche Foodness e Fondazione Veronesi usano il cancro al seno per spaventare le donne

Ci scrive un'amica, a meta` di un sonnolento sabato mattina. E` molto spaventata. E` andata a fare colazione fuori insieme a marito e figlioletto e curiosando nel bar, tra caramelle, gelati e uova di Pasqua, si e` imbattuta in un cartello pubblicitario. Ad attirare la sua attenzione era stata la folta chioma bionda e ondulata adagiata sul seno di una ragazza bella come una sirena, la cui immagine spiccava sullo sfondo rosa del cartello. In basso a sinistra, in primo piano, il logo della Fondazione Umberto Veronesi e quello del suo progetto Pink is Good, un nastro rosa. A spaventare la nostra amica tre righe piazzate sopra la testa della ragazza:

"In Italia una donna su tre rischia il cancro ma uno stile di vita sano e controlli regolari possono salvare la vita".

Piu` in basso, sotto una tazza contenente una bevanda rosa, un'altra frase che questa volta fa riferimento al cancro al seno:

"Noi sostieniamo la ricerca scientifica contro il tumore al seno devolvendo parte dei ricavi, ottenuti dalla vendita di Mermaid Latte, alla Fondazione Umberto Veronesi".

Noi chi? Che cos'e` il Mermaid Latte? E che cancro rischia una donna su tre? Quello al seno? Tutti i tipi di cancro? La nostra amica e` molto confusa e allora le chiediamo di mandarci una foto del cartello. Ed eccolo qua:


Noi e` Foodness, "la prima azienda italiana" - apprendiamo dal loro stesso sito - "a introdurre il concetto di Wellness nel settore Ho.re.ca", acronimo che sta per Hotel/Restaurant?Cafe`[qui].
Foodness produce bevande vegetali, una birra a basso contenuto calorico, caffe` in capsula, barrette, biscotti e muffin. Tutto a base di "piante, fiori, radici, bacche e alghe" [qui]. Tutto salutare. Proprio come il Mermaid Latte pubblicizzato nel cartello, una bevanda per "sirene e tritoni sempre di fretta e pieni di impegni che non rinunciano pero` alla propria pausa di benessere", leggiamo ancora sul sito [qui]. Neanche una parola, invece, sulle capsule e i materiali di cui sono fatte. Da questi ultimi, infatti, puo` dipendere la possibilita` di smaltirle e, in caso non sia possibile, che inquinino, con pesanti ricadute sulla nostra salute [qui].
Non e` la prima volta che Fondazione Veronesi instaura relazioni pericolose per raccogliere fondi per una non meglio precisata "ricerca" sul cancro al seno. Ne abbiamo gia` parlato a proposito della partnership con la marca di assorbenti Lines [qui]. Tra gli altri sponsor di Pink is Good, pero`, c'e` anche Lancia Ypsilon che ogni anno apre il corteo della PittaRosso Pink Parade, l'evento di punta della Fondazione Veronesi, salutando tutti i partecipanti al profumo di gas di scarico [qui qui].
Nel caso di Foodness, all'utilizzo strumentale della malattia per vendere prodotti che potrebbero avere un impatto nocivo sull'ambiente e sulla salute si aggiunge la deliberata ambiguita` del cartello pubblicitario. Da una parte, secondo il rapporto AIOM-AIRTUM I numeri del cancro in Italia 2018, nel nostro paese il rischio cumulativo di ammalarsi di cancro, ossia "la probabilita` teorica che un individuo riceva una diagnosi di tumore nel corso della sua vita" che si esprime per "numero di persone che sarebbe necessario seguire [...] in assenza di decessi" perche` la diagnosi si verifichi, e` per le donne una su tre [qui]. Dire che "in Italia una donna su tre rischia il cancro" e`, in assenza di spiegazioni aggiuntive, una grossa semplificazione. Al tempo stesso, il riferimento esplicito al cancro al seno, ulteriormente amplificato dal colore dello sfondo del cartello e dal nastro rosa di Pink is Good, restringe l'attenzione su un unico tipo di cancro. Lo scopo e` dunque spaventare le donne, usando strumentalmente una delle malattie che fa loro piu` paura, e indurle a comprare il Mermaid Latte di Foodness. Come una pozione salvifica, la bevanda, rigorosamente rosa, trasformera` quelle che ne faranno uso in sirene dalla folta chioma bionda e ondulata e le proteggera` dal cancro al seno. Cosa succedera`, invece, a quelle che prenderanno un normale espresso senza i superpoteri rosa? Correranno incuranti il rischio di perderli, i capelli, per via della chemioterapia, e forse di perdere proprio la vita? Se cosi` fosse, non resterebbe da dire che se la sono andata a cercare.
Circa una settimana fa, abbiamo scritto su questo blog del Congresso Mondiale delle Famiglie e della partecipazione di Babette Francis, attivista anti-abortista, abituata ad agitare lo spettro del cancro al seno per spingere le donne a fare tanti figli a 20 anni e allattarli quanto piu` a lungo possibile [qui]. Trovate le differenze di metodo con la campagna di Foodness e Fondazione Veronesi, se ci riuscite.

martedì 26 marzo 2019

Noi malate di cancro al seno sotto accusa al Congresso Mondiale delle Famiglie

Avvertenza: a questo post non verranno allegati i link ai siti e ai video del  Congresso Mondiale delle Famiglie per non offrire ulteriore diffusione a contenuti mendaci

Sta per iniziare a Verona il Congresso Mondiale delle Famiglie. Dal 29 al 31 marzo il movimento antifemminista, anti-abortista e anti-LGBTQI classificato come "gruppo d'odio" si riunira` in una citta` tristemente famosa come una delle capitali europee dell'estrema destra [qui qui qui]. Tra i relatori diversi esponenti dell'attuale governo: il vicepremier Matteo Salvini, il ministro per la Famiglia e la Disabilita` Lorenzo Fontana, il ministro dell'Universita` e dell'Istruzione, Universita` e Ricerca Marco Bussetti, Luca Zaia, governatore del Veneto, oltre a Federico Sboarina, sindaco di Verona, Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d'Italia e deputata, Necola Legrottaglie, calciatore, Sammy Basso, leader dell'Associazione Italiana Progeria, Silvana De Mari, medica e nota omofoba, Alessandro Meluzzi, psichiatra e assiduo frequentatore di salotti televisivi, ed Elisabetta Gardini, parlamentare europea ed ex presentatrice.
Non e` la prima volta che il congresso si svolge, ma e` la prima volta che ad accoglierlo sara` una tre-giorni di eventi alternativi e una manifestazione di protesta organizzata da Non Una di Meno [qui]. Centinaia di persone convergeranno su Verona da tutta l'Italia per portare solidarieta` a chi in citta` si sentira` giustamente minacciato dalla presenza di questi loschi figuri legati all'estrema destra e probabilmente finanziati da oligarchi russi vicini a Putin. 
Anche noi donne colpite dal cancro al seno siamo nel mirino del Congresso Mondiale delle Famiglie. Nel corso di ogni edizione la nostra malattia viene indicata come il risultato del non avere figli da giovani, del non averli allattati o di aver abortito volontariamente. Babette Francis, fondatrice dell'organizzazione Endeavour Forum, sara` presente a Verona a ripetere quanto gia` detto nel 2016 a Tbilisi dove, rivolgendosi alle donne che "si vantano di preferire la carriera alla famiglia" le ha invitate ad essere "consapevoli che se non avete figli avete un rischio parecchio piu` alto di ammalarvi di cancro al seno". Un discorso conclusosi con la sua personale "risposta" al problema del cancro al seno: "fate tanti bambini, a 20 anni invece che a 30, e allattateli il piu` a lungo possibile".
Affermazioni che oltre a gettare ancora una volta la croce addosso a chi di cancro al seno si e` ammalata con e senza figli, magari perche` non ha fatto nemmeno in tempo ad averne a causa della malattia, non hanno alcun fondamento scientifico. Per queste ragioni, inviatiamo chi ci segue a non dimenticare i nomi dei governanti presenti. Salvini e Fontana presenzieranno ad un evento in cui le donne malate di cancro al seno saranno accusate di essersela andata a cercare, di non aver adempiuto ai propri doveri riproduttivi e di aver ricevuto per questo motivo una diagnosi che nessuno vorrebbe mai ricevere. E gia` che ci siete, ricordatevi anche degli utili idioti del Movimento 5 stelle che consentono a questa gentaglia di stare al potere. E se passate da Verona non perdetevi gli eventi e la manifestazione di Non Una Di Meno.

giovedì 14 febbraio 2019

Benzene. Una storia operaia

Il titolo di questo post e` un omaggio al libro di Alberto Prunetti, Amianto. Una storia operaia [qui] che mi ha aiutata a fare ordine nella mia storia personale e in quella che mi appresto a raccontare.

Pepito e` un ometto brevilineo. Abita in Galizia, Spagna. Adora il pesce e i frutti di mare. E` iracondo, spesso bestemmia ma non e` cattivo. Tifa per il Real Madrid pur essendo socialista ma, si sa, nessuno e` perfetto.

Negli anni '70, sulla soglia dei 30, Pepito si trasferisce a Vigo dal paese dove e` nato e cresciuto. Fa diversi lavoretti e poi, finalmente, viene assunto non in cielo, che` a lui i preti non piacciono, ma niente di meno che alla Citroen. La casa automobilistica francese ha aperto lo stabilimento di Vigo negli anni '50, in pieno franchismo. Quando Pepito conosce e sposa Maria del Carmen, pero`, Franco e` gia` morto. E quando suo figlio Jose nasce, nel 1978, la transizione alla democrazia e` gia` in marcia.

Pepito va a lavorare a piedi. Abita vicino alla fabbrica, a Coia, un quartiere operaio. Suo figlio cresce, va a scuola, e` molto bravo. Dice che da grande vuole fare lo scienziato. I suoi genitori si mettono a ridere. Lo scienziato? Il figlio di un operaio? Che cosa ridicola! Pepito ride si, ma, in cuor suo, un poco ci crede. Quando torna dal lavoro ha la bocca tutta impastata perche` il suo compito e` mettere la colla agli interni delle macchine e ne respira i vapori, ma manda giu` tutto con qualche bicchiere di vino perche` i soldi servono. Per mangiare, per pagare la casa e per questo figlioletto sognatore.

Passano gli anni e le stagioni. Jose si laurea. Lavoro per lui a Vigo non ce n'e`, ne` suo padre vuole che vada a lavorare anche lui alla Citroen. E allora se ne va lontano, in Inghilterra. Continua a studiare. Un dottorato e, a seguire, il lavoro che voleva fare da bambino. Pepito e` orgoglioso. Ormai e` in pensione. Passa le giornate a passeggio con la moglie, a cucinare il pesce che tanto gli piace, in campagna a coltivare patate e verdure. La fotografia del figlio scattata il giorno della laurea sempre nel portafogli.

Un giorno e` nell'orto e sente che gli manca il respiro. Il cuore batte veloce veloce e la testa gli gira. Che strano, non sta facendo niente di particolarmente faticoso! E poi, lui problemi di cuore non ne ha, il fisico e` asciuttissimo e di energia ne ha da vendere. La dottoressa ordina alcune analisi da cui risulta un'anemia piuttosto severa. Pepito viene rivoltato come un calzino. Non ha niente se non l'anemia che, pero`, non migliora nemmeno col ferro. E` palliduccio e stanco il giorno in cui finalmente gli dicono quello che ha: una sindrome mielodisplastica, un gruppo di neoplasie del midollo osseo che aumenta il rischio di sviluppare la leucemia mieloide acuta e per cui non c'e` cura se non il trapianto. Si tratta di una malattia poco conosciuta che si manifesta in soggetti che hanno fatto chemioterapia per altri tumori o che sono stati esposti a sostanze tossiche come il benzene. C'entrera` tutta quella colla che Pepito ha respirato e Maria del Carmen ricorda molto bene perche` era impossibile staccarla dalle tute da lavoro? Non c'e` tempo per pensare a queste cose. Bisogna fermare la malattia. Iniezioni, analisi, biopsie, TAC, visite mediche, effetti collaterali, sudorazioni notturne. E tanta, tanta stanchezza.

La vita di Pepito diventa un tormento. Le stimolazioni del midollo osseo non fanno molto effetto e le trasfusioni lo ricaricano progressivamente per sempre meno giorni. All'anemia si aggiunge la piastrinopenia e, infine, arriva la proliferazione dei globuli bianchi. Blocco renale, ricovero, chemioterapia, altro ricovero, a casa e di nuovo in ospedale, trasfusioni, sangue dal naso, placche emorragiche. Infine, l'emorragia cerebrale causata dall'infiltrazione della sindrome mielodisplastica nei vasi sanguigni del cervello. Pepito non muore. L'emorragia si riassorbe, ma la vasculite cerebrale, gli infarti renali ed epatici multipli, il dimagrimento innarrestabile e la perdita di massa muscolare rivelano che per lui non c'e` piu` niente da fare. Sono le due e mezza dell'11 di febbraio quando, tra gli abbracci e i baci di suo figlio, muore.

Pepito era mio suocero e gli ero affezionata ma, con la malattia, e` diventato molto di piu`. Pepito e` un fratello di ingiustizia. La sua storia non finisce con la morte e saremo io e suo figlio a farla conoscere, per lui che in fabbrica ci ha lavorato e per chi, come me, pur non avendoci mai messo piede ne e` stato avvelenato lo stesso.


sabato 12 gennaio 2019

L'esenzione negata - 2

Il "medico" di due anni fa non c'e` piu`. Andato. Sparito. Sara` andato in pensione? L'avranno spostato altrove? Non importa. Conta solo che il suo sguardo suino non si riposi sulle mie carte [qui].

Questa volta sono stata previdente: ho chiesto all'oncologa di preparare un certificato di una pagina sola. Poche righe, giusto diagnosi e una data. 2021. Il termine previsto per la fine delle terapie farmacologiche. Tamoxifene una volta al giorno. Decapeptyl ogni 28 giorni.

Il nuovo medico parla in italiano ed e` piu` gentile dell'altro. Non che ci voglia molto.
Mi fa accomodare e ascolta cio` che gli dico: ho il cancro al seno dal 2010 e sono ancora in terapia.
Gli indico il numero di pagina del referto dell'ultima visita oncologica dove ho sottolineato le righe che recitano: "prosegue la terapia ormonale oltre 5 anni".
Mi chiede se ho qualcosa di piu` sintetico. Ecco il certificato. Quello con diagnosi e data.
"Devo continuare fino al 2021".
Nell'angolo in alto a destra del foglio, pero`, scrive 6 gennaio 2020. Passi che si tratta del giorno dell'Epifania, ma perche` un anno di meno?
Si tratta di disposizioni regionali, mi spiega: dopo i primi 5 anni, l'esenzione dal ticket va rinnovata di anno in anno.
"Dal cancro, pero`, non si guarisce", gli faccio presente.
"Come? Certo che si guarisce!"
"E allora perche` in alcune regioni l'esenzione e` a vita per i malati di cancro?"
"Anche qui in Puglia una volta era a vita, ma poi c'era gente che se ne approfittava"
"In che senso?"
"Beh, guarivano e continuavano sempre a non pagare".
Vorrei dirgli che l'esenzione dal ticket per patologia riguarda solo i farmaci e le prestazioni che riguardano la patologia stessa. Che dopo il 2021, anche se dovessi ancora avere l'esenzione e quindi poterlo comprare gratis, il decapeptyl non voglio vederlo neanche piu` in fotografia. Che se la mia oncologa mi dicesse che non ho piu` bisogno di risonanze, mammografie, ecografie, visite e esami del sangue stapperei una bottoglia di buon vino e non metterei mai piu` piede in ospedale. Non credo, pero`, che riuscirei a persuaderlo che ha appena detto un'enorme stronzata. Gli chiedo allora il numero del provvedimento regionale.
"Non lo so"

Da quel giorno il numero del provvedimento regionale e` diventato per me come il santo Graal: lo cerco in ogni dove e non lo trovo.
Ho guardato su internet, ho chiesto su Twitter al governatore della Puglia, nonche` assessore regionale alla sanita`, Michele Emiliano, cosi` attivo sui social. Niente.
Ho scritto, infine, all'ufficio relazioni con il pubblico dell'ASL. La risposta, sollecita, e` stata che secondo la normativa nazionale spetta allo specialista orientare il medico dell'ASL sulla durata dell'esenzione. Esattamente come ho fatto io con il mio certificato di poche righe con diagnosi e data. E il provvedimento regionale secondo cui, in Puglia, trascorsi i primi 5 anni dalla diagnosi, bisogna rinnovare l'esenzione anno per anno?
L'addetta dell'URP gira la mia domanda al direttore amministrativo dell'ASL e all'ufficio esenzione per patologia. Rimango, a tutt'oggi, in attesa di risposta. 

domenica 6 gennaio 2019

L'esenzione negata

Il "medico" dell'ASL mi aspetta assiso alla sua scrivania. Vuota. Non c'e` un computer. Non c'e` un pezzo di carta. Non c'e` una penna. Le mani grassocce mollemente poggiate sul legno compensato. Il camice e` bianco, lo sguardo suino.

"Che vu'?", escalama irritato. Significa "cosa vuoi?" nel dialetto locale.
"Devo rinnovare l'esenzione dal ticket per patologia. Cinque anni fa ho avuto un tumore al seno, ma sono ancora in terapia".
I baffetti scuri seguono la smorfia irritata della bocca.

Gli porgo il referto dell'ultima visita oncologica. Sei pagine fitte fitte che documentano, con dovizia di particolari, la mia situazione clinica.
"E che e`?"
Le pagine sono tante. Troppe. La prima data in alto a sinistra e` 20 dicembre 2010. La data dell'intervento chirurgico.
"2010. Hai fatto 5 anni", mi dice, come stesse parlando di un compleanno.
Gli rispondo che ho un tumore ormonoresponsivo e che secondo lo studio ATLAS...
"Allora hai le metastasi", mi interrompe.
"No. O almeno non ancora"

Mi restituisce le carte. Mi fa cenno di andare. Senza il rinnovo dell'esenzione.
Alzo la voce. "La faccio finire sui giornali", minaccio. "Non solo non avete tutelato la mia salute, facendomi ammalare a 30 anni di cancro. Adesso nemmeno le medicine gratis mi volete passare?"

Gli occhi suini puntati sul referto dell'oncologa. Scarabocchia qualcosa. Una data: 16 dicembre 2018.
Abbandono la stanza. "Voglio parlare con un superiore di questo signore", chiedo indicando la porta da cui sono appena uscita.

Vengo accompagnata al piano di sopra. Altra porta. Altra attesa.
Entro. Una signora in camice bianco, seduta dall'altro lato di una scrivania di rappresentanza, ben diversa da quella del suo sottoposto, guarda perplessa l'intestazione del referto:
"Istituto Europeo di Oncologia. E che cos'e`?"

I fatti raccontati in questo post non sono di fantasia, ma sono realmente avvenuti nel 2016 nell'ASL di una citta` di provincia del Sud Italia. Domani dovro` recarmi nello stesso luogo e rivedere le stesse facce. Riusciro` a farmi rinnovare l'esenzione dal ticket per patologia fino al 2021? Sara` una lunga notte.