mercoledì 17 febbraio 2016

Cervelli in fuga? No, cervelli sfruttati e discriminati nella civilissima Inghilterra

Cervelli in fuga. Meritrocrazia. Se ne sta parlando tanto in questi giorni in Italia. Tutto vero? Mica tanto.
Come chi segue questo blog sa, mi sono addottorata in storia nel 2012 in Inghilterra. Avrei dovuto finire nel 2010, ma il cancro ha sconvolto i miei piani. Ho potuto usufruire di una borsa di studio pagata in parte dal governo e in parte dall'Universita` che mi ospitava, la University of Reading. Nel 2016 cosa faccio? Colleziono finanziamenti e pubblicazioni su riviste prestigiose? No, cerco un lavoro pagato, anche poco, e non lo trovo. Perche`? Perche` i soldi per la ricerca per le scienze umanistiche e sociali sono finiti anche qui. Finiti. Zero. Il governo di coalizione tra conservatori e lib-dem li ha cancellati. E anche la Gran Bretagna e` diventata come l'Italia. Ho perso il conto delle domande di post-doc che ho fatto e dei colloqui finti, in cui il candidato era gia` stato designato. L'ultimo me l'hanno fatto fare via Skype a dicembre mentre ero negli Stati Uniti al San Antonio Breast Cancer Symposium. Ho deciso allora di dire basta con l'accademia che, credetemi, e` marcia strutturalmente, non solo in Italia.
E` stato cosi` che in una fredda mattina di gennaio, mentre entravo nell'ufficio postale del quartiere dove abito a Brighton, mi sono imbattuta in un annuncio: "cercasi impiegato part-time per l'ufficio postale". L'ufficio postale in questione sta in un negozio tipo il nostro tabaccaio. Qui li chiamano off licence o corner shops. Chiedo un modulo per fare la domanda, ma il proprietario mi dice che basta parlare con lui. "Come ti chiami? Quanti anni hai? Hai figli?" E ti pareva. La solita domandina. Sono talmente sfinita che rispondo con sorrisetto sarcastico che no, non ne ho. Restiamo d'accordo che avrei cominciato un tirocinio - non pagato ovviamente - al termine del quale, quando avessi imparato a usare il computer delle poste e il registratore di cassa del negozio marca Olivetti pieno di polvere che manco in uno scavo archeologico, avrei cominciato a percepire il salario minimo.
I primi due giorni filano abbastanza bene. Alla radio passano canzoni che ascoltavo durante il dottorato. David Bowie era morto da poco. Mi prende il magone, ma resito. Il terzo giorno sono tesa. E` venerdi`. La settimana successiva ho i controlli. Sono angosciata. A un certo punto sento che mi stanno per scappare le lacrime. Mi nascondo nel retrobottega. Piango. Il proprietario mi segue chiedendomi cosa non andasse. Presa in un momento di debolezza, dico la verita`. "Stai tranquilla. Tutto andra` bene. Ora va a casa e rilassati. Dopo i controlli, continuerai il tuo tirocinio. Lavorare qui ti aiutera` a distrarti".
E` giovedi`. Sono in Italia. I controlli sono andati bene. Il coniuge e` tornato a casa. Non c'e` bisogno che rimanga per la visita oncologica. Passa davanti al negozio e vede che l'annuncio e` stato esposto di nuovo. Mi avverte. Chiamo il proprietario:
"Cosa e` successo?"
"Tu non sei in condizione di lavorare, vero?"
"Chi? Io? Si, perche`?"
"Perche` hai il cancro"
"Veramente ora sono in remissione"
"Si, ma le poste non mi daranno mai il permesso di assumere una persona malata"
"Ehm, guarda che fare una cosa del genere e` contro la legge"
"No, e` che sono io che penso che una persona col cancro non sia adatta a questo lavoro"
Buongiorno, mi chiamo Grazia, ho 35 anni, un dottorato di ricerca in storia contemporanea, un cancro al seno e sono stata discriminata per la seconda volta sul lavoro per questo motivo. Che lavoro? Ricercatrice? No, impiegata tuttofare in un negozietto sudicio. Ma dove? In Italia? No, nella civilissima Inghilterra. This is England.

Leggi questa storia in inglese qui

sabato 6 febbraio 2016

Trieste scende in piazza contro la Ferriera

di Gabriella Petrucci




Di Trieste, nel resto d’Italia, non si conosce poi molto, mi sa. Molti magari fanno perfino fatica ad individuarla su una cartina geografica. Certe volte le carte la omettono proprio, la provincia di Trieste. Una piccola appendice che è meglio rimuovere, non si sa mai che butti in peritonite. Beh, ci siamo quasi. Perché Trieste, che invece è bella, adagiata sul mare, con i suoi palazzi ottocenteschi e la bora impetuosa (almeno quella, la conoscono tutti) ha un problema grave. Non si chiama Ilva ma si chiama Ferriera, un impianto siderurgico costruito nel 1896 nei pressi di Servola, un tempo villaggio e poi, col tempo, inglobato dalla città nella sua espansione moderna. Una parte di Trieste gli è cresciuta attorno, un pezzo alla volta, perché la città di spazio non ne ha tantissimo, un po’ stretta tra le alture del Carso e il mare, e l’edilizia degli anni ’60 e ’70 non andava tanto per il sottile. Le case oggi sorgono a breve distanza da questo impianto ormai vecchio, arrugginito, nero, puzzolente, che continua a produrre ghisa (probabilmente è rimasto l’unico in Italia) e a emettere, giorno dopo giorno, anno dopo anno, sostanze inquinanti, contaminanti che si accumulano nei polmoni e nel sangue non solo di chi vi lavora ma anche in quelli di chi vive nei pressi dello stabilimento. E nel resto della città.

Non mi dilungherò sul perché gli abitanti di questa città debbano essere costretti a subire un lento avvelenamento nell’indifferenza della politica, che a parole ha sempre detto di voler risolvere il problema (specie nei periodi pre-elettorali) ma poi di fatto ha sempre lasciato le cose come stavano, per motivi di probabile convenienza economica. Certo è che in vari punti della città sono posizionate centraline di rilevamento dei valori delle sostanze più pericolose, che puntualmente registrano sforamenti da brivido [qui].

La gente che abita intorno a Servola convive con una polvere nera, untuosa, che si deposita dappertutto, con il rumore, continuo, con la luce dei fuochi notturni, con i cieli quasi sempre coperti da nuvole grigiastre. La puzza arriva anche nel resto della città, quella si sente. Il particolato fine e le sostanze cancerogene, ecco, quelle non si sentono. Ma arrivano dappertutto anche loro. Quando la situazione diventa insopportabile, l’amministrazione comunale tira fuori gli attributi e …limita il traffico. Perché, come nella Palermo di Johnny Stecchino, a Trieste il problema è il TRAFFICO. 

 
Nonostante tutto ciò, ancora oggi è difficile sapere per certo quanto questo impianto stia attentando alla nostra salute e a quella dei nostri figli. Sappiamo che le sostanze emesse sono cancerogene, e sappiamo che la gente, a Servola e nel resto della città, si ammala e muore. Di patologie che, guarda caso, sono legate all’avvelenamento da benzoapirene o alla presenza di polveri sottili, ma mettere in relazione questi due fatti sembra ancora troppo difficile. Lo studio epidemiologico di recente effettuato dalla Regione non rileva niente di particolarmente anomalo, mentre lo studio realizzato su scala nazionale dal Ministero per la Salute sugli esiti sanitari nei siti inquinati e contaminati (SENTIERI) non ha tenuto granché conto della situazione di Trieste (per quel che riguarda l’incidenza dei tumori) per un problema di metodologia della raccolta dati [qui]. Evviva!

Però intorno a noi la gente continua ad ammalarsi e a morire. E mica solo di tumori ai polmoni o alla tiroide. E qui arriviamo a noi. Si sussurra, al riparo delle confortevoli mura degli ambulatori oncologici, che nella Provincia di Trieste la probabilità, per una donna, di ritrovarsi col carcinoma mammario sia di una su sette. Peccato che poi quando vai a cercare i dati ufficiali, niente da fare. Altina, come percentuale. Nella confusione mentale seguita alla scoperta di avere un cancro al seno, la cifra è rimasta ben impressa nella mia mente. Molte altre cose le ho rimosse, ma quella no . E quando recuperi, dopo tre anni, un po’ di lucidità per analizzare il problema non dico dal di fuori ma da “meno dentro”, ti fa incazzare che si parli di “necessità di condurre appropriati stili di vita” “corretta alimentazione” “volersi bene” “ fare sport” (si, ok, tutto giusto, per carità) quando chi ci avvelena è là, piantato a poca distanza da noi e continua a vomitarci il suo schifo. Ah, dimenticavo: nella vicina Monfalcone, nota per i suoi cantieri navali, e similmente appestata da anni da una centrale a carbone, i dati dello studio epidemiologico recentemente ottenuti dalla Regione parlano invece abbastanza chiaro. L’aumento dei casi di cancro della mammella tra il 1995 e il 2009 è inequivocabile nella provincia di Gorizia [qui].


Domenica 31 gennaio forse Trieste ha avuto un sussulto di rabbia, di dignità. Forse anche perché di recente, anzi di recentissimo, si è manifestata una volta di più agli occhi della gente l’indifferenza della politica alle reali necessità di chi in questa città vive e lavora. È stata infatti rilasciata, da una apposita Conferenza di Servizi cui hanno partecipato tutti gli Enti interessati, la famosa AIA, ossia l’Autorizzazione Integrata Ambientale che in sostanza, come una bondiana “licenza di uccidere” consentirà al nostro ecomostro di continuare a lavorare e a produrre sostanze nocive per i prossimi 10 (10!!!) anni. Con buona pace delle evidenze, delle segnalazioni, delle proteste. Si, perché di proteste, negli ultimi anni, ne sono state fatte tante. Ci sono associazioni, e gruppi di approfondimento sui social che monitorano attentamente quel che succede (o forse dovremmo dire quel che non succede), denunciando l’immobilismo della politica. Da più parti sono arrivate proposte: di chiusura dell’impianto, di riduzione, di riconversione. Non si è mai mossa foglia (in concreto, intendo). Certo, ci lavora della gente, lì dentro. Non sono moltissimi, 400 circa, ma tengono famiglia. Con tutti i milioni che sono stati spesi negli anni per tenere in piedi questo Leviatano, sai quanti posti di lavoro alternativi si potevano trovare o creare per non far rimanere nessuno in mezzo a una strada? Il “ricatto occupazionale” è la delicata questione tirata in ballo ogni volta che si prospetta l’eventualità della chiusura totale dell’impianto, cui segue levata di scudi, accuse di voler mettere ulteriormente in ginocchio la già disastrata economia cittadina…come se dal punto di vista etico lavoro e salute non fossero sullo stesso piano. 
Io (che personalmente sarei per tombare tutto e amen, a mai più rivederci), in un impeto di ottimismo sfrenato voglio sperare che forse ora qualcosa cambierà. Le soluzioni dovranno trovarle quelli che ci amministrano (a giugno qui da noi si vota) e che non possono avere sulla coscienza la salute compromessa di un’intera città. Ma intanto noi cittadini (e lo dico con orgoglio, noi) domenica ci siamo messi in marcia in almeno 4mila o forse più, in una protesta pacata ma ferma, decisa, come di chi proprio non ce la fa più a sopportare tutto questo. A Trieste forse un corteo così non si è mai visto, o non si vedeva da tanto, tanto tempo. Di questo, della ottima riuscita della manifestazione, dobbiamo dire grazie ad alcune persone molto testarde che lo scorso mese hanno costituito il “Comitato 5 Dicembre - Giustizia Salute Lavoro”, definito, con le stesse parole dei fondatori, “Comitato spontaneo di liberi cittadini, apolitico ed apartitico, per risolvere il grave problema di Salute Pubblica legato alla Ferriera di Servola TS” [qui].

La “passeggiata di protesta”, un vero successo, aveva lo scopo di chiedere innanzitutto il rispetto degli impegni presi dalle amministrazioni comunali (l’attuale e le precedenti) in merito alla risoluzione del problema più pressante: la riduzione delle emissioni, tanto per cominciare. (Chiaro che, nell’opinione di molti, solo la chiusura definitiva potrebbe apportare un vero, reale beneficio alla nostra salute. Diciamolo).
È stato bello, davvero. Forse sarebbe meglio dire che più che una protesta “contro” qualcosa è stata una protesta “per” qualcosa. A favore del nostro benessere, del nostro diritto a respirare e a non farci ammalare o ammazzare da ciò che respiriamo o beviamo o mangiamo; a favore dei nostri figli, e a questo proposito segnalo che c’erano tanti bambini, in corteo, con i genitori, i nonni, tutti allegri, colorati, con le mascherine sul viso (non quelle di carnevale, anche se ci siamo quasi…no, quelle antipolvere che avevamo tutti), alcuni con le faccine buffe sporcate di nero come sono neri e sporchi i vetri, i balconi, i pavimenti delle case intorno alla Ferriera, i calzini dei bimbi di Servola e i loro piedi dentro i calzini, neri e sporchi come i polmoni di chi in Ferriera lavora… tanta gente, tanti striscioni, anche parecchie bandiere, in effetti. Perché se la manifestazione si è definita da subito rigorosamente apolitica e apartitica, nel senso che nessun rappresentante di forze politiche locali ha potuto metter becco nell’organizzazione, è però anche vero che il comitato ha chiesto che i movimenti, i partiti, le associazioni che decidevano di aderire alla protesta si palesassero con un’assunzione di responsabilità. Un giorno sarà importante sapere chi ha partecipato e chi no…e tocca rilevare, ahimè, che c’erano praticamente tutti, ma la Sinistra ha brillato per la sua triste assenza. Peccato, un’occasione persa. Ce ne ricorderemo.
Nel suo percorso, lasciata la centrale piazza Oberdan, il fiumone umano si è diretto verso la Stazione Centrale, poi ha colmato le Rive. La giornata era un po’ “muffosa”, il cielo bigio, ma l’atmosfera era vivace, allegra, complice anche un’ottima colonna sonora proveniente dal camioncino degli organizzatori che faceva da “apripista” (complimenti per la scelta dei brani). Arrivo nella piazza affacciata sul mare più grande d’Europa (o del mondo? Della Galassia?), la nostra piazza Unità, vanto e orgoglio dei triestini DOC e di quelli, come me, che lo sono diventati per eccessiva permanenza… Nota di chiusura: al momento degli interventi, dall’improvvisato palco del camioncino, dei rappresentanti delle associazioni, un paio di esponenti politici locali hanno cercato disperatamente di mettere il cappello sulla manifestazione: alla frase “se sarò sindaco, allora io….”, rimozione immediata del microfono e coro di fischi da curva sud. 'A bello de casa, allora non capisci l’italiano. Ocio, questo è solo l’inizio.

lunedì 1 febbraio 2016

Cinque anni sti cazzi!

Cinque anni. Sono passati cinque anni dal piu` crudele dei giorni in cui Grazia e` morta, uccisa dalla notizia di avere il cancro al seno. Cinque anni dall'asportazione di un pezzo del suo seno destro e dei suoi linfonodi ascellari. Cinque anni dalle chemio, la radio, l'Herceptin, l'inizio della terapia ormonale.
Ho fatto i controlli questa settimana. Non sembra ci sia nulla di rilevante. Oggi pomeriggio vedro` la mia oncologa e pianificheremo il prosieguo delle terapie. Ma come? Sono passati cinque anni e continui le terapie? Si, perche` per i carcinomi estrogeno-responsivi come il mio il rischio di recidiva va ben oltre il quinquennio. Lo conferma uno studio pubblicato da poche settimane sul Journal of Clinical Oncology e il cui primo autore e` Marco Colleoni, senologo medico presso l'Istituto Europeo di Oncologia [qui]. Chiedero` alla mia oncologa di girarmi l'articolo di Colleoni e colleghi in modo da poterlo leggere interamente, ma l'abstract non lascia spazio a molti dubbi. Nelle pazienti con carcinomi estrogeno-dipendenti il rischio di recidiva rimane "elevato e piuttosto stabile oltre i 10 anni, anche in assenza di coinvolgimento linfonoidale [...] o nei casi in cui siano coinvolti da 1 a 3 linfonodi [...]". Le conclusioni riportate nell'abstract sottolineano la necessita` di mettere a punto strategie terapeutiche prolungate per questa categoria di pazienti.
Saro` in grado di fornire maggiori dettagli dopo aver letto l'articolo. Nel frattempo, il grido di battaglia odierno e` : "cinque anni, sti cazzi!"