venerdì 9 febbraio 2024

Sorvegliata speciale

La fosfatasi alcalina è un insieme di isoenzimi presenti prevalentemente nelle ossa e nel fegato e in minima parte nell'intestino, nei reni e nella placenta. La sua funzione esatta non è nota eppure fa parte degli esami del sangue che eseguo, adesso annualmente, da quando mi sono ammalata di cancro al seno. 

A Natale, ho avuto un forte raffreddore: tosse e starnuti e non finire. Il mio fianco destro ne ha risentito: non riuscivo più a girare il torso e avevo dolore quando tossivo, starnutivo, ridevo, quando mi giravo nel letto e quando premevo in un punto preciso in corrispondenza di una costola. Nonostante sapessi che tosse e starnuti ripetuti possono fare scherzi del genere, il pensiero è corso alla mia mamma e al dolore al fianco destro che con cui si è annunciato il suo cancro al pancreas (attenzione! non è un sintomo tipico: mamma aveva un'infiltrazione del duodeno e per questo forse aveva dolore al fianco destro). In alternativa, temevo una metastasi ossea. I cancro-controlli intanto si avvicinavano. Il dolore pian piano si andava attenuando. Sono partita per Milano riproponendomi di accennare la cosa all'oncologa, ma rincuorata dal miglioramento.

Sono le 13.30. Ho fatto il prelievo del sangue la mattina. Mammografia ed ecografia del seno sono andate bene. Mi resta solo la visita ginecologica per controllare che il mio endometrio ispessito dal tamoxifene non abbia deciso di dare i numeri. I risultati delle analisi del sangue sono un pugno in faccia: la fosfatasi alcalina è fuori range. Di poco, ma in quel momento riesco solo a vedere l'asterisco accanto al numero 150 e a pensare al dolore alla costola. Un rialzo della fosfatasi alcalina può essere indice di metastasi alle ossa. Mentre, impallidita, mi aggiro per il corridoio dell'ospedale senza riuscire a fermarmi, vengo soccorsa da due oncologhe che cercano di rassicurami e incaricano due segretarie di contattare quella che mi segue dalla diagnosi. "È venuta da sola perchè non vuole dare fastidio a nessuno, vero?", mi dice una delle segretarie, e mi abbraccia mentre mi chiedo come fa a saperlo. Dopo pochi minuti, la mia oncologa mi chiama al telefono. Le dico della costola, della fosfatasi. Lei mi dice che potrebbe essere una microfrattura e che il dolore difficilmente sarebbe scemato se si fosse trattato di una metastasi. "Ma la mia mamma aveva dolore al fianco destro. Lo so che finirò come lei". E subito parte il senso di colpa perchè chi sono io per non morire come la mia mamma?!? La dottoressa propone altri esami: l'isoenzima osseo della fosfatasi alcalina per capire se l'aumento del valore è dovuto a qualche alterazione - anche benigna - a livello osseo e i marcatori tumorali. 

L'amica adorata che mi ospita a Milano molla il lavoro e mi raggiunge senza che faccia in tempo a chiederglielo. Josè salta sul primo aereo. Sarà una notte lunga. I marcatori li odio. Li immagino schizzati che puntano il dito contro di me. Quando, il giorno successivo, l'oncologa mi dice che sono normali le salto al collo. Il risultato dell'isoenzima, invece, non è ancora pronto. Deve arrivare da un altro ospedale e ci vorrà qualche giorno. La dottoressa mi visita. Preme sulla costola e sento un leggero dolore. L'ipotesi è quella di una microfrattura causata da un colpo di tosse. In questo caso, l'isoenzima risulterà alterato. 

Il sollievo per i marcatori nel range non dura molto. Sono sotto shock. Non mi era mai capitato di avere un valore delle analisi del sangue fuori range. Ogni tanto un pò di emoglobina e globuli bianchi bassi, la firma lasciata dalla chemioterapia sul mio midollo osseo ma niente di più. Comincio a leggere tutto quello che riguarda la fosfatasi alcalina. Chiedo nei gruppi di pazienti. Una di loro cerca di rassicurarmi: è capitato anche a lei a causa degli inibitori dell'aromatasi che però io non prendo. Intanto leggo sul bugiardino della venlafaxina a rilascio prolungato - l'antidepressivo che prendo da ottobre 2019, quando la morte del papà di Josè aveva risvegliato il mio disturbo da stress post-traumatico - che tra gli effetti collaterali "non frequenti (1 su 100)" sono riportati "lievi cambiamenti degli enzimi epatici". Cerco su internet altre informazioni sul farmaco e leggo sul sito della Food and Drug Administration che negli studi premarketing dell'Efexor - nome commerciale del farmaco - è indicato tra gli effetti collaterali infrequenti l'aumento della fosfatasi alcalina

Colpo di scena. L'isoenzima osseo della fosfatasi alcalina risulta nella norma. Il sospetto, a questo punto, si sposta sulla venlafaxina. L'oncologa vuole comunque che ripeta di nuovo l'esame della fosfatasi alcalina ai primi di marzo - per essere sicuri che ci sia effettivamente un aumento e non si sia trattato di una rialzo transitorio - e, solo in caso dovesse essere salita ulteriormente, consiglia di parlarne con lo psichiatra per valutare la sospensione. 

La venlafaxina mi ha causato altri problemi in passato. Bastava che dimenticassi di prenderla per un solo giorno e avevo delle crisi di astinenza, che ovviamente non riconoscevo come tali e che mi facevano stare malissimo. Ansia a mille, tachicardia, assenza di appetito, formicolii, giramenti di testa. Ne avevo anche parlato allo psichiatra che aveva pensato a un disturbo d'ansia generalizzato e consigliava di aggiungere la pregabalina all'antidepressivo, cosa che per fortuna ho rifiutato. Invece, una sera in cui stavo così male da meditare di andare in pronto soccorso, mi sono ricordata di aver saltato la dose quotidiana di venlafaxina. La presi e nel giro di un paio d'ore - il tempo di digerirla - iniziai a sentirmi meglio. Un breve giro su internet e social e scoprii l'esistenza di gruppi di supporto zeppi di persone che non riescono a sospenderla perchè provoca sintomi da sospensione molto più forti rispetto agli altri antidepressivi. Lo psichiatra sostieneva, invece, di non aver mai sentito nulla del genere ma mi concesse comunque, lo scorso anno, di iniziare a scalare la dose con l'obiettivo di arrivare alla sospensione. Da 150mg sono arrivata a 75mg in due mesi. E lì sono rimasta ferma fino ad ora. 

Informo lo psichiatra dell'aumento della fosfatasi alcalina e del sospetto sulla venlafaxina. Dice che capitano tutte a me e che magari è meglio ripetere l'esame della fosfatasi alcalina dopo 15 giorni invece che dopo un mese come richiesto dall'oncologa. Gli chiedo se pensa che l'aumento della fosfatasi alcalina sia dovuto a un problema oncologico. Mi risponde di non essere un oncologo. Mi concede di scalare ulteriormente la venlafaxina. Il prezzo da pagare è la paura che mi ha rimesso addosso.

Come stai? È una domanda a cui non si risponde facilemente se si vive con una malattia come il cancro. Non lo so. Per il momento, cerco di scacciare il pensiero di dover ripetere le analisi e dover di nuovo aprire i risultati. Non riesco a non immaginare i risultati schizzati che mi puntano il dito contro. Non riesco a non pensare che questi tredici anni potrebbero essere stati solo una tregua. Che niente torna come prima. Che non mi sarei dovuta ammalare a trent'anni. Che se è successo la responsabilità è di chi aveva il dovere di tutelare la mia salute e non l'ha fatto, facendomi finire in un girone infernale di terapie decennali, controlli a vita e farmaci per controllare le tossicità psicologiche del cancro che, a loro volta, provocano altri problemi. Tutto questo se sono "fortunata" e la malattia non si ripresenta. Non c'è niente di bello e di edificante in tutto questo. Sono malata e, in quanto tale, sono una sorvegliata speciale. 

 

domenica 2 aprile 2023

Im/paziente. Un'esplorazione femminista del cancro al seno





Maëlle Sigonneau è una giovane donna francese di 30 anni. Lavora nell'editoria. Ha da poco iniziato una nuova relazione sentimentale. A causa di un arrossamento sotto l'ascella e di un indolenzimento al seno sinistro, che avverte soprattutto quando fa yoga, decide di fare un salto dalla sua dottoressa di medicina generale che le prescrive una mammografia, dopo averla rassicurata dicendo che il cancro al seno non è doloroso. Alla mammografia seguono una serie di altri esami, effettuati senza fornire alcuna spiegazione, e la non-comunicazione di una diagnosi di cancro al seno di cui Maëlle si rende conto perchè sente un medico che, dandole le spalle, chiama l'Istituto Curie, il più importante centro oncologico francese, per prenotarle una visita urgente:

"Sono diventata, quasi da un giorno all’altro, una marginale. Marginale rispetto alla popolazione sana, perché ho un cancro. Marginale rispetto alle donne con un cancro al seno perché sono molto giovane. Marginale rispetto alla mia cerchia di amicizie composta da trentenni perché tutto ciò che caratterizza socialmente questa categoria anagrafica mi è diventato di difficile accesso: una vita sessuale soddisfacente, un rapporto di coppia, matrimonio, figli, casa di proprietà, un lavoro a tempo indeterminato. Marginale rispetto alle pazienti giovani con un cancro al seno perché il mio è metastatico. Cosa che mi colloca in quel margine dei margini verso cui nessuno vuole allungare lo sguardo, dove non vale lo stereotipo del cancro al seno come piccola e inoffensiva malattia da cui ormai si guarisce tanto facilmente".

Sono queste le parole con cui Maëlle racconta il suo ingresso nel mondo del cancro che stravolge completamente il suo sguardo sulla società e sul ruolo che occupa in essa. Da giovane donna 'normale' e normata, Maëlle si ritrova catapultata al margine e da lì non solo osserva, ma si posiziona criticamente nei confronti del cancro al seno e di tutto ciò che ci gira intorno. Lo fa attraverso un podcast, che cura insieme all'antropologa Mounia El Koutni, conosciuta dopo 2 anni e mezzo di malatta, e che si intitola in francese Impatiente, proprio per sottolinearne il carattere poco consono al canone della mansuetine costruito addosso alla paziente modello.

"Voglio contribuire al discorso sul cancro con una voce diversa dalle altre.Una voce capace di parlare di genere, questione fondamentale in questa malattia, anche più della sopravvivenza, a giudicare da norme e imperativi in circolazione (“La cosa fantastica della chemio è che non devi più depilarti!”). Bisogna essere donna a tutti i costi, al punto che il 30% delle pazienti rifiutano, senza farne materia di riflessione, una parte delle cure a causa degli effetti collaterali che potrebbero provocare.
Una voce capace di ricordarci che siamo prima di tutto persone e cittadine. Che è inaccettabile il modo in cui si continua a perpetuare l’oppressione economica delle donne persino quando affrontano la prova del cancro – mi sentite aziende produttrici di cosmetici ad hoc e sponsor dell’Ottobre rosa?
Una voce che risponda alla pletora di testimonianze edificanti sul cancro come 'opportunità' che permette a warriors, survivors e altre eroine di scoprire in sé risorse insospettate, per poi coronare il tutto con il lancio sul mercato di una linea di foulard speciali per donne in chemioterapia. Un bel circolo vizioso.
Una voce che ripeta fino all’esaurimento che il cancro non è mai un’opportunità.
Che ogni paziente deve essere rispettata, che ogni violenza va denunciata, che la gratuità delle cure non giustifica in nessun caso il mancato rispetto del consenso.
Una voce, la mia, che vi dice: 'Non voglio vivere una vita da donna. Voglio vivere e basta'".

Così il progetto di podcast è stato presentato a varie società di produzione, come racconta Mounia El Kotnie, in quello che è poi diventato più recentement un libro, uscito prima in Francia e adesso anche in Italia con il titolo "Im/paziente. Un'esplorazione femminista del cancro al seno", nella traduzione di Silvia Nugara, grazie alla casa editrice Capovolte. Maëlle è morta prima di vedere la pubblicazione di entrambe le edizioni e questo rende il libro ancora più importante perchè ce ne fa arrivare la voce, insieme ad altri materiali inediti raccolti con minuzia da Mounia. 

Anni fa, anche noi avevamo proposto a due grosse case editrici un progetto molto simile. Il direttore editoriale di una delle due, ci rispose che il progetto era davvero bello ma che, secondo lui, il pubblico italiano non vuole sentire dirsi la verità sul cancro al seno. Quella email ci sembrò intrisa di tutta la miopia e il provincialismo dell'industria culturale italiana che, fino ad ora, non è stata capace di proporre una visione del cancro al seno - e non solo - anche solo minimamente fuori dagli schemi. Solo una casa editrice fieramente femminista come Capovolte, allora, poteva regalarci il libro di Maëlle e Mounia, uno strumento essenziale per capire, far capire e continuare, su scala più grande, il lavoro che in piccolo ha iniziato questo blog, ormai più di dieci anni fa e a cui Silvia Nugara aveva già contribuito organizzando una proiezione/dibattito di Pink Ribbons Inc. a Torino. 

"A volte è bello essere estremiste. Abbiamo bisogno di essere estremiste per cambiare e far cambiare le cose", aveva detto una volta Maëlle alla sua amica  Aurélia. Non potremmo essere più d'accordo e siamo grate a Capovolte e a coloro che ci hanno consegnato, anche il italiano, il testamento di chi, pur vittima dell'ingiustizia suprema com'è vedersi negare il diritto a vivere in giovane età, non ha voluto rinunciare a contribuire a cambiare le cose. 

giovedì 1 luglio 2021

L'inferno e` tra noi

Rosa ha 55 anni. Ha una chioma di bellissimi capelli neri, gli occhi fieri. E' caldo e protettivo l'abbraccio che mi da Rosa il giorno in cui capisco che per mamma non c'e` piu` niente da fare. Mamma era dentro il reparto, a fare la penultima, inutile chemioterapia. Guardo le sue spalle scheletrite prima di uscire dalla sua stanza. All'uscita quel giorno, Rosa fa le veci della mia mamma. Mi asciuga le lacrime, mi abbraccia forte, mi dice che devo pensare anche un po` a me stessa, che sono diventata troppo magra, che mamma non vorrebbe vedermi ridotta cosi`. Restiamo all'aria aperta, nel sole di settembre, mano nella mano per un po`. Prepariamo insieme il piano sorriso per il ritorno a casa, in modo che papa` non si accorga di niente.

Rosa era l'infermiera che ci ha aiutato con mamma nel suo ultimo mese di vita. Oggi e` morta anche lei, di cancro alla vescica, uno di quei cancri per cui l'esposizione a sostanze tossiche rientra tra le cause certe. 

La scoperta del cancro di Rosa e` avvenuta otto mesi fa, durante la seconda ondata della pandemia di Covid. Il Covid non e` caduto dal cielo. I salti dei virus dagli animali agli uomini sono diventati sempre piu` frequenti a causa dei danni che il nostro sistema socio-economico sta causando all'ecosistema. Nostro poi, certo e` un sistema socio-economico non a beneficio dei piu`.

Fa molto caldo dove Rosa giace senza vita oggi, con i suoi cari intorno che la piangono, inclusa una figlia di diciotto anni. Non e` un caso. Come non sono un caso gli oltre 40 gradi che si stanno registrando in questi giorni in Canada.

L'inferno e` tra noi, costretti a lavorare e vivere come schiavi, le cui vite non vale la pena tutelare. Le "cure" per ogni sorta di malattie che ci colpiscono sempre piu` giovani non sono che promesse e non ci restituiranno quello a cui abbiamo diritto: una vita sana, non medicalizzata. Se non ce lo riprendiamo da soli non ce lo dara` nessuno.  

sabato 29 maggio 2021

Il 5X1000 a Codice Viola



 

Tempo di dichiarazioni dei redditi e di 5X1000. "A chi mi consigliate di darlo?", ci scrivono in tante. Fino ad ora non ci veniva in mente molto altro che le associazioni che si occupano di fornire assistenza nella fase terminale della malattia e che sopperiscono, meritoriamente, alle troppe carenze dello stato in questo ambito. Quest'anno abbiamo, invece, una risposta convinta per chi preferisse invece destinare il proprio 5X1000 alla ricerca. E la risposta e' Codice Viola, l'associazione impegnata a rompere il muro di indifferenza che circonda il cancro al pancreas. Il motivo e' molto semplice  e l'ha spiegato di recente la stessa associazione nel suo blog [qui]:

"chi deciderà di finanziare Codice Viola saprà a priori dove saranno impegnati i soldi raccolti e perché si è deciso di finanziare alcune iniziative. Inoltre siamo impegnati a cambiare il ruolo dei pazienti negli studi clinici richiedendo che vengano prese in considerazioni alcune istanze della nostra comunità"

A differenza di altre grandi fondazioni che si occupano di ricerca sul cancro e trattano le persone come salvadanai da cui tirare fuori soldi senza nemmeno premurarsi di spiegare a quale tipo di ricerca quei soldi saranno devoluti, la piccola ma preziosa Codice Viola e' trasparente, cristallina e mette al centro le reali necessita' dei pazienti. 

Anni fa vi avevamo invitate a fare agli organizzati delle innumerevoli iniziative organizzate in nome della raccolta di fondi per la ricerca sul cancro al seno le quattro domande suggerite da Breast Cancer Action. Una di queste era: "quali progetti riguardanti il cancro al seno saranno finanziati?". [qui]
Codice Viola non si occupa di cancro al seno, ma offre alle altre organizzazioni una straordinaria lezione di metodo. Chiarisce quali progetti verranno finanziati prima ancora che sia necessario chiederlo, come e' giusto che sia. Occorre dunque supportarne il lavoro, a prescindere dal tipo di cancro, affinche' anche gli altri si adeguino e capiscano che niente che riguarda i pazienti si puo' fare senza interpellarli e rappresentarne le istanze.

giovedì 29 aprile 2021

A Francesca

Permettimi, cara Francesca, di dissentire da te ancora una volta. E te lo devo dire, anche se sei morta, perche` ho troppo rispetto per la tua intelligenza che rimane qui con noi, nonostante il tuo corpo abbia smesso di esserne veicolo. Trovera` altri canali, ne sono certa.

Dunque, no, non sono d'accordo quando dici che non ti senti tanto speciale ad avere e morire di un cancro al pancreas al quarto stadio perche` la vita e` cosi`. Vero, la vita e` cosi`, Francesca, ma cosi` com'e` e` una vita molto ingiusta. E' una gran bella vita di merda! Non e` giusto, no, ammalarsi di cancro al pancreas a 50 anni, non e` giusto dover lasciare anzitempo un figlio adolescente, una madre e le tantissime altre persone che ti vogliono bene. Capisco, perche` me l'hai detto, che la tua priorita` e` stata dare loro quanta piu` serenita` possibile, al punto che hai voluto essere progressivamente meno presente nelle loro vite per rendere meno doloroso il distacco. Resta comunque il fatto che sono stati negati a te almeno altri 40 anni di vita e a loro, in particolare a tuo figlio, almeno altri 40 anni di vita con te. E questo fatto va detto e ribadito in ogni dove, dati alla mano e rabbia nel petto e sulla lingua, per quanto male possa fare. Perche` se la realta` non la guardiamo dritta in faccia in tutto il suo schifo e non la descriviamo per quella che e`, come facciamo a cambiarla?

E non sono d'accordo nemmeno sul fatto che, secondo te, i caregiver fanno troppo i chiagnazzari. Si, e` vero, certi cancro-gruppi da social sono un piagnisteo. Cazzo, non si rendono conto che, oltre a piangere e ricordare quanto hanno sofferto i loro cari prima di esalare l'ultimo respiro, fornendo tutti i dettagli sulla devastazione a cui un corpo ucciso dal cancro puo` andare incontro a persone che vivono con la stessa malattia e, giustamente, se la fanno sotto, potrebbero uscire dal loro privato e provare a dire una parola, fosse pure un vaffanculo, su quanto sia intollerabile che cosi` tante persone si ammalino e muoiano oppure mettere mano al portafogli e fare una donazione a Codice Viola. Ed e` pure vero, che visto lo stadio della tua malattia, alle lacrime dei tuoi cari non ci volevi nemmeno pensare. Pero`, ti assicuro, il loro dolore e` grande. E` un dolore silenzioso, che possono esprimere solo da dietro uno schermo, perche` nella vita di tutti i giorni, in questo grande circo distopico in cui le nostre esistenze sono state trasformate, tutti siamo chiamati a fare finta che "andra` tutto bene", che anche se mio padre o mia sorella o mia figlia sono morti di cancro bisogna sorridere che` "la vita va avanti". Molti, infatti, poi escono dai gruppi e tornano a interpretare il ruolo che il circo distopico gli ha cucito addosso invece di intraprendere la vera battaglia che non e` quella del singolo contro la malattia - che grandissima stronzata! -  ma quella per il diritto a vivere in salute quanti piu` anni possibile e, quando ci si ammala, ad avere a disposizione terapie efficaci e non tossiche.

Quindi, Francesca, ti ripeto, non sono d'accordo e bisogna che troviamo un modo per continuare questo confronto. Mamma si e` reincarnata in una farfalla e si fa vedere mentre svolazza nei prati, adesso che e` primavera. Tu hai gia` scelto in quale creatura sfottente, altruista e coraggiosa ti rincarnerai? Quando hai fatto, dammi una voce che` l'appiccico deve continuare. Vado, a rinnovare l'iscrizione a Codice Viola e fare una donazione a nome tuo, senno` ti incazzi e avresti anche ragione. A presto.            

venerdì 2 aprile 2021

Ai caregiver

 A chi ci tiene la mano, mentre, nel braccio, l'ago della flebo pizzica

A chi ci fa le iniezioni per anni

A chi fa tutto in casa e fuori quando la fatigue non ci molla

A chi ci prepara la colazione 

A chi salta di gioia perche` la mangiamo

A chi si finge interessato a Stuart Hall per scacciarci via la nausea

A chi sta sveglio di notte per piangere e gridare in silenzio

A chi di notte non riesce a dormire

A chi di notte crolla per la stanchezza

A chi guarda le stelle per mestiere ed esprime sempre lo stesso desiderio quando ne vede una cadente

A chi saccheggia il mercato perche` delle fragole si sente il sapore

A chi ci viene a trovare a sorpresa

A chi ci spedisce lettere e disegni e libri

A chi a forza di insistere alla fine ci fa ridere

A chi vorrebbe poter essere al posto nostro

A chi si infila di nascosto nel pronto soccorso per non lasciarci soli

A chi ci lava quando siamo allettati

A chi ci prepara le medicine se deve uscire

A chi non gli fa schifo niente, nemmno il vomito, la cacca, il catarro

A chi gli fa schifo tutto ma ci aiuta a pulirci lo stesso

A chi finge di non aver paura

A chi, dopo la fine, muore di dolore

A chi da paziente diventa caregiver e poi di nuovo paziente e caregiver insieme 

Grazie.

venerdì 8 gennaio 2021

Dio benedica Le Amazzoni Furiose

di Valentina Bridi

L'11 gennaio del 2016 mi sono svegliata con  la notizia della morte di David Bowie e con in testa stampato il suo ultimo video. I segni della malattia sul corpo, l'angoscia, la morte imminente. Dopo poche ore mi sono seduta di fronte a un chirurgo buono che con lo sguardo abbassato ha sussurrato un sì alla mia domanda secca Ho il cancro vero? 

Per tanto tempo ho pensato che nulla mi avrebbe resa più felice di trovarmi qui, dopo cinque anni, a scrivere sono Valentina ho 38 anni e sono passati 5 anni dalla mia Hiroshima. Sto bene. 

Ho pensato di poter dimenticare, ho sperato a lungo che come per magia tutto sarebbe tornato come prima. 

E invece quella ferita che mi ha squarciato in due é stata talmente brutale, profonda, radicale che la si può addobbare certo, si può imparare ad accettarla e perfino a nasconderla fino al punto di dimenticarsi qualche volta della sua esistenza, ma sarà sempre lì, a ricordare quello che è stato e quello che è perso.
La fatica di sopravvivere a sé stessi. 

Sono finita sul blog delle Amazzoni Furiose pochi giorni dopo la mia diagnosi, persa nel mezzo di un racconto collettivo della malattia che non solo non mi apparteneva, ma trovavo offensivo verso quello che stavo vivendo, perché volutamente e colpevolmente parziale ed edulcorato. Nessuno spazio alla fragilità, alla paura, all’angoscia, alla possibilità concreta di non sopravvivere. 

Leggevo storie su storie e non capivo dove sbagliassi, perché non riuscissi ad essere positiva, a reagire, a trasformare quello che mi stava accadendo in un piccolo incidente di percorso che avrei superato più forte di prima. Il cancro che ti rende una persona migliore, che ti insegna il valore delle cose, che ti fa apprezzare quello che hai. 

Questo tipo di narrazione poi é quasi sempre donna ed é alle donne che viene imposta come unica possibile, pena il silenzio o il giudizio. 

Mi chiedevo perché non riuscissi ad indossare il mantello da eroina per sconfiggere quel cancro cattivo magari con un bel sorriso stampato in viso, perché tutto quel rosa che raccontava la mia malattia mi facesse venire il voltastomaco. 

Ho capito che la risposta era nella parola consapevolezza, ho avuto fin dal primo momento una consapevolezza estrema non solo del mio cancro e di come sarebbero potute andare le cose, ma anche di quanto poco contasse quello che avrei potuto fare o non fare. 

E mi sono fin da subito sentita presa in giro da tutte quelle persone che provavano a tenermi buona raccontandomi di certezze che sapevo bene nessuno potesse avere, nemmeno quando quel qualcuno indossava un camice bianco. Giusto chi abita i piani alti, per chi ci crede. 

Quell’andrà tutto bene che tanto va di moda in tempi di coronavirus chi riceve una diagnosi di cancro se lo sente ripetere come un mantra, perché fare i conti con quello che significa davvero, avere un cancro, fa una gran paura e se lo si può evitare lo si evita, ma lo si fa per sé stessi, mica per aiutare chi il cancro ce l'ha per davvero. 

La prima psicologa con cui ho parlato a pochi giorni dalla diagnosi mi ripeteva che la stavo facendo troppo grande, di darmi allo yoga, alla cucina senza zuccheri, alla meditazione, alla scrittura creativa. Che il tumore al seno è una malattia di cui non si muore praticamente più, che è il cancro buono, che la chirurgia è talmente orientata alla ricostruzione estetica che nemmeno lo avrei rimpianto il mio seno, che davvero non era quello il modo di affrontare quello che stavo vivendo, che non potevo pensare di guarire se non aiutavo il mio corpo a farlo, che li avrei visti andare all’università i miei figli. 

Il mio cancro aveva una proliferazione del 98% (credo di detenere una sorta di record fra gli oncologi a riguardo, visto che il 100% tecnicamante non si è mai visto). La soglia per considerare un tumore al seno aggressivo è una proliferazione superiore al 20%. Un cancro che cresceva letteralmente alla velocità della luce e che se non avesse risposto alle terapie mi avrebbe ammazzata nel giro di pochi mesi, poco più di 30 anni, due bambini piccoli e quello che mi sentivo ripetere da tutti era che ero troppo negativa, che sarebbe andato tutto bene. 

Vaffanculo. Sono tornata in vita quando sono riuscita a dire un bel vaffanculo a chi pretendeva di insegnarmi come si doveva stare, in quella merda, come ci si doveva sentire, come si doveva reagire. Quando sono riuscita a dirmi che andavo bene lo stesso, che ero brava ad affrontare tutto, anche se facevo fatica. 

Chi mi cammina accanto sa bene che c’è stato un durante e un dopo la malattia fatto di cose belle, di viaggi, di progetti, di speranza, ma non ho mai voluto fosse questo il punto.  Celebrare la mia personale storia di malattia, che come tutte continuo a sperare possa essere a lieto fine, non è mai stato e non sarà mai il mio punto. 

Avevo una possibilità su 3 di essere morta a 3 anni dalla diagnosi, e di ragazze che sono cadute in quella possibilità ne ho conosciute a decine. Con alcune di loro le nostre vite si sono appena sfiorate, con altre abbiamo condiviso un pezzo di strada e poi c’è stata Valeria che ha cambiato la mia vita per sempre. La sua morte un dolore che ancora faccio fatica a nominare. 

Il cancro al seno è una cazzo di roulette russa. Ti curi fai quello che ti dicono e incroci le dita. Se non tocca a te toccherà a qualcun altro e il prezzo del tuo sopravvivere nella giungla delle probabilità che in oncologia diventano prognosi sarà la morte di un'altra persona che ha fatto tutto esattamente come te e probabilmente molto meglio di te. 

Finchè tutto sarà affidato al caso, finchè il mio destino e con il mio quello di milioni di donne che ogni anno si ammalano sarà una roulette russa, finchè non esisterà una cura per il cancro al seno e finché non si farà davvero qualcosa per evitare che le donne continuino ad ammalarsi, sempre di più e sempre più giovani, la mia personale storia non conterà nulla e non sarà mai il mio punto. 

Qui dentro ho smesso di sentirmi sola e sbagliata, perché quello che uccide quando ci si ammala ancor più della malattia è il senso di solitudine profondo che ci si trova a vivere. Pochi, pochissimi, accettano di guardare in faccia insieme a te quello che una diagnosi di cancro porta con sé. Per paura o per incapacità poco cambia, il risultato è che ci si sente tremendamente sole. E sbagliate. 

Incontrare altre donne, leggere parole che finalmente comprendevano anche me, è stato come sentirsi a casa in un momento in cui la mia, di casa, era crollata e tutto quello che vedevo erano solo macerie sparse ovunque. Unire le nostre voci e insieme alzarle l’unico senso che sono riuscita a trovare in quello che mi è successo. 

"Fare le brave non serve a niente" diceva Barbara Brenner che grazie a questo blog ho imparato a conoscere ed amare ed é proprio così. Possiamo subire accettando che altri decidano e pensino per noi o possiamo farci sentire, autodeterminandoci. Nella malattia così come nella vita. 

“Perciò è meglio parlare, perchè non era previsto che noi sopravvivessimo” (Audre Lorde). 

Dio Benedica Le Amazzoni Furiose e le donne e gli uomini che le abitano.