martedì 30 aprile 2013

"La nostra guerra buonista al cancro al seno" - Prima parte




Peggy Orenstein e` una scrittrice e giornalista statunitense. Vive a San Francisco con marito e figlia, Daisy. Aspettando Daisy e` il titolo del libro, diventato un best seller, che l’ha resa famosa nel 2007. Racconta delle peregrinazioni dell’autrice per avere un bambino, lei che al principio non era nemmeno sicura di volerne avere. Lei che, anni prima, aveva avuto il cancro al seno.
Da qualche giorno non si fa che parlare nella breast cancer community d’oltreoceano di un suo articolo, piu` che un articolo un vero e proprio pamphlet, uscito il 25 aprile sul magazine del New York Times e intitolato “La nostra guerra buonista al cancro al seno”. Di seguito la prima parte della traduzione in italiano di alcuni stralci significativi.

"Una volta pensavo che una mammografia mi avesse salvato la vita. Lo scrissi persino su questo giornale. Era il 1996, avevo appena compiuto 35 anni quando il mio medico mi prescrisse un primo screening che potesse poi servire da termine di confronto quando avessi cominciato la mammografia annuale a 40 anni. Non avevo nessuna familiarita` per cancro al seno, ne` alcun fattore di rischio.
Cosi` quando il radiologo trovo` una strana formazione a forma di ruota di bicicletta – nemmeno un nodulo – e mi mando` a fare la biopsia, non mi preoccupai. Dopo tutto, a chi viene il cancro al seno a 35 anni?
Sta di fatto che io ce l’avevo. Ricordare la paura, la confusione, la rabbia, il dolore di allora mi fa ancora male. La mia unica consolazione e` che il sistema ha funzionato esattamente come previsto: la mammografia ha identificato il tumore precocemente, mi sono sottoposta a una quadrantectomia e sei settimane di radioterapia. Ero destinata a sopravvivere.
Per coincidenza, giusto una settimana dopo la diagnosi un panel di esperti convocato dall’Istituto Superiore di Sanita` fece clamore per aver rifiutato di raccomandare lo screening mammografico alle quarantenni; i dati non mostravano che diminuisse significativamente la mortalita` per cancro al seno in quella fascia d’eta`. In aggiunta, a causa della densita` delle loro mammelle, le donne giovani erano soggette a un numero sproporzionato di falsi positivi – con biopsie e preoccupazioni inutili – cosi` come a falsi negativi, in cui il cancro non veniva identificato.
Quelle conclusioni furono una pugnalata alle spalle. “Sono una di quelle persone la cui vita non vale ufficialmente la pena di essere salvata”, scrissi arrabbiata. Quando l’American Cancer Society e la piu` giovane Susan G. Komen rigettarono le conclusioni del panel, dicendo che la mammografia era ancora il migliore strumento per abbattere la mortalita` per cancro al seno, amici da ogni parte del paese mi chiamarono per congratularsi come se fosse una mia vittoria personale. Consideravo il mio caso un esempio indubitabile dei benefici della diagnosi precoce.
Sedici anni dopo il mio modo di vedere le cose e` cambiato. Mentre studi su studi hanno svelato i limiti dello screening – e i rischi della sovra-diagnosi – il tarlo del dubbio si e` insinuato dentro di me. Quanto ha contato davvero la mammografia nel mio caso? L’esito sarebbe stato diverso se avessi scoperto da sola il cancro anni dopo? E` difficile discutere con un risultato positivo. Dopo tutto sono viva e sono grata di essere ancora qui. Ma ho visto amiche il cui cancro era stato diagnosticato “precocemente” morire lo stesso. Ho tremato per quelli che fortunatamente si sono rivelati falsi allarmi per molte altre. Recentemente, uno studio su tre decenni di screening pubblicato a Novembre sul New England Journal of Medicine ha rilevato che l’impatto della mammografia e` decisamente misto: riduce, di poco, il numero di donne che ricevono una diagnosi di cancro al seno in fase avanzata, ma e` molto piu` suscettibile di causare sovra-diagnosi e trattamenti non necessari, inclusi interventi chirurgici, settimane di radioterapia e assunzione di farmaci potenzialmente tossici. Eppure la mammografia rimane il pilastro indiscusso del movimento per la consapevolezza che si identifica col nastro rosa. Dovunque vada – al supermercato, in lavanderia, in palestra, dal benzinaio, al cinema, in aereoporto, dal fioraio, in banca, al centro commerciale – vedo poster che proclamano che “la diagnosi precoce e` la migliore protezione” e “le mammografie salvano vite”. Ma quante vite sono state “salvate” esattamente, in che circostanze e a che costo? La sensibilizzazione sul cancro al seno, una malattia di cui una volta si parlava solo in sussurri, e` stata senza dubbio importante cosi` come sottolineare i benefici dello screening, ma la sempre maggiore “consapevolezza” ha prodotto degli effetti indesiderati, anch’essi a detrimento della salute delle donne.
Il cancro al seno quando e` nel seno non uccide; la malattia diventa mortale quando si diffonde ad altri organi o alle ossa. La diagnosi precoce si basa su una teoria, risalente al diciannovesimo secolo, in base alla quale la malattia progredirrebbe in maniera costante, a partire da una prima cellula cancerosa che si riprodurrebbe in sequenza fino a portare alla morte in un dato momento. La cura dunque consisterebbe nel diagnosticare ed eradicare il tumore prima che si diffonda.
Il problema e` che non c’e` nessuna prova che la dimensione del tumore sia indicativa della sua eventuale diffusione. Secondo Robert Aronowitz, professore di storia e sociologia della scienza alla University of Pennsylvania e autore di “Storia innaturale: il cancro al seno e la societa` americana”, i medici avallavano l’idea in ogni caso, al di la` di ogni pia illusione, spinti dal bisogno “disperato” di fare qualcosa contro un morbo che li faceva sentire impotenti. Cosi` nel 1913, un gruppo di loro si raduno` per fondare un’organizzazione (destinata a diventare l’American Cancer Society) e mettere in guardia le donne che sopravvivere al cancro dipendeva da loro. Alla fine degli anni ’30, avevano mobilitato un “Esercito delle donne”, con piu` di 100.000 volontarie, vestite in khaki, che andavano casa per casa a raccogliere fondi per “la causa” e insegnavano alle vicine a correre dal medico in caso di “sintomi sopetti”, come un nodulo o un sanguinamento irregolare.
La campagna funziono`, diciamo. Piu` gente si rivolse ai medici. Piu` cancri vennero diagnosticati, piu` interventi chirurgici vennero effettuati e piu` pazienti sopravvissero alla parte iniziale delle cure, ma il numero di donne che morivano di cancro al seno non diminui`. L’aumento delle diagnosi non corrispose a un incremento del numero di vite “salvate”. Era il segno che alcuni aspetti della teoria della diagnosi precoce non funzionavano. Tuttavia, i chirurghi continuarono a credere che bisognasse semplicemente identificare la malattia ancora prima.
La mammografia consentiva di fare proprio questo. I primi studi, cominciati nel 1963, mostrarono che i controlli su donne sane insieme all’esame clinico riducevano la mortalita` per cancro al seno del 25%. Sebbene la diminuzione riguardasse quasi interamente donne dai 50 anni in su, sembro` logico che i controlli su donne ancora piu` giovani (cioe` diagnosticare il cancro prima) avrebbero prodotto risultati ancora piu` soprendenti. Il cancro si sarebbe addirittura potuto curare.
Quello scenario pieno di speranza avrebbe, tuttavia, potuto trovare attuazione solo se le donne si fossero sottoposte alla mammografia annuale e, agli inizi degli anni ’80, si stima che solo il 20% delle idonee lo facesse. Nancy Brinker fondo` Komen nel 1982 per far aumentare quei numeri, convinta che la diagnosi precoce e la consapevolezza del cancro al seno avrebbero potuto salvare sua sorella Susan, morta a 36 anni. Tre anni dopo il Mese della prevenzione del cancro al seno venne inaugurato. Le soldatesse in khaki degli anni ’30 vennero sostituite da milioni di corritrici “per la cura” vestite di rosa e da legioni di prodotti rosa: secchielli di pollo rosa, vasetti di yoghurt rosa, aspirapolveri rosa, guinzagli rosa. Il messaggio pero` era sempre lo stesso: il cancro al seno continuava ad essere un destino temibile, ma la buona notizia per le donne era che vigilanza e diagnosi precoce rendevano la sopravvivenza a portata di mano.
All’inizio del nuovo secolo, il nastro rosa era ormai imprescindibile e circa il 70% delle donne sopra i 40 anni si sottoponevano agli screening. La mammografia annuale era diventato un rito quasi sacro, cosi` prezioso che quando, nel 2009, un altro organismo indipendente ribadi` che per la maggior parte delle donne lo screening doveva cominciare a 50 anni ed effettuarsi con cadenza biennale, la notizia non genero` sollievo ma rabbia. Gli studi mostravano che, dopo anni di bombardamento sulla diagnosi precoce, le donne pensavano che la mammografia non solo identificasse il cancro al seno ma addirittura lo prevenisse.
[...]
Mentre le donne accettarono la mammografia, la visione dei ricercatori stava cambiando. La malattia, e` ormai chiaro, non si comporta in maniera uniforme. Non si tratta nemmeno di una malattia sola. Esistono almeno quattro tipi diversi di cancro al seno, che possono avere cause diverse e rispondono in maniera diversa ai trattamenti. Due sottotipi correlati, luminale A e luminale B, si nutrono di estrogeni e rispondono alla terapia quinquennale con tamoxifene o inibitori dell’aromatasi che bloccano l’accesso delle cellule cancerose agli estrogeni o ne riducono i livelli. Inoltre, un terzo tipo di cancro, detto HER2-positivo produce una quantita` eccessiva di una proteina detta recettore 2 per il fattore di crescita epidermico umano; e` trattabile attraverso la somministrazione di immunoterapia mirata con Herceptin. L’ultimo tipo, il carcinoma basale (spesso definito triplo negativo, perche` la sua crescita non e` legata ai biomarcatori piu` comuni nel cancro al seno, estrogeno, progesterone, HER2) e` il piu` aggressivo ed e` responsabile di circa il 20% dei casi. Piu` diffuso tra le giovani e le Afro-americane, e` geneticamente simile al carcinoma ovarico. All’interno di queste classificazioni, esistono senza dubbio ulteriori distinzioni, sottotipi che potranno portare in futuro a nuovi farmaci capaci di agire su specifiche caratteristiche del tumore consentendo trattamenti piu` efficaci, ma ci vorra` ancora molto tempo.
Quei primi studi sulle mammografie vennero condotti prima che i diversi tipi di cancro venissero identificati, prima dell’Herceptin, della terapia ormonale, addirittura prima dell’utilizzo su ampia scala della chemioterapia. Il miglioramento dei trattamenti ha oscurato alcuni dei vantaggi della diagnosi precoce, sebbene sia difficile quantificare. La mortalita` per cancro al seno e` diminuita del 25% a partire dal 1990 e alcuni ricercatori sostengono che i trattamenti – e non le mammografie – siano responsabili di tale dimuzione. Fanno riferimento a uno studio di tre coppie di paesi europei con sistemi sanitari e livelli di rischio simili: in ogni coppia, le mammografie sono state introdotte da 10 a 15 anni prima che nell’altro. La mortalita` e` risultata identica. La mammografia non sembrava fare la differenza. Negli Stati Uniti, alcuni ricercatori attribuiscono allo screening la riduzione del 15% della mortalita`, che rimane costante anche quando l’intervallo tra una mammografia e l’altra si riduce a un anno [invece che due, ndr.]. Secondo Gilbert Welch, professore di medicina al Darmouth Institute for Health Policy and Clinical Practice e co-autore dello studio pubblicato lo scorso novembre sul New England Journal of Medicine sul sovra-trattamento indotto dallo screening, solo tra il 3 e il 13% delle donne a cui il cancro al seno e` stato diagnosticato in seguito allo screening hanno tratto reale beneficio dall’esame.
Se Welsh ha ragione, l’esame aiuterebbe tra 4.000 e 18.000 donne l’anno. Non un numero insignificante, soprattutto se una di queste sei tu, ma forse meno di quanto ci si potrebbe aspettare dato che le donne a cui la malattia viene diagnosticata ogni anno tramite la mammografia sono 138.000. Perche` la diagnosi precoce non funziona per un numero maggiore di donne? Le mammografie, pare, non sono cosi` efficaci nell’identificare le forme piu` letali di cancro al seno – come il triplo negativo – quando sono ancora trattabili. I tumori aggressivi progrediscono troppo velocemente, spesso saltando fuori tra una mammografia e l’altra. Prenderli “in tempo”, quando sono ancora piccoli, puo` non servire a molto: sono gia` in metastasi. Questo spiega perche` non c’e` stata alcuna diminuzione dell’incidenza del cancro al seno metastatico dall’introduzione dello screening.
La mammografia individua tumori che sarebbero ugualmente trattabili anche se identificati successivamente dalle donne o dai medici e quelli che si riproducono cosi` lentamente che non si diffonderebbero mai. Per quanto possa sembrare improbabile, alcuni studi indicano che un quanrto dei tumori identificati con la mammografia sarebbero andati via da soli. Per una donna di 50 anni dunque le mammografie possono individuare il cancro al seno, ma riducono il rischio di morirne nei successivi 10 anni solo dello 0,7% - dallo 0,53% allo 0.46%. La riduzione del rischio per le donne piu` giovani e` ancora piu` bassa, dallo 0,35 allo 0,3%.
Se i benefici dello screening sono stati sovrastimati, poco si dice dei suoi possibili danni. Secondo una rassegna di studi clinici randomizzati per i quali sono state reclutate 600.000 donne in tutto il mondo, ogni 2000 donne sottoposte a screening annuale nel corso di un decennio, una vita viene prolungata ma 10 donne subiscono una diagnosi di cancro al seno e venga trattate senza che ve ne sia necessita`, spesso con terapie che inducono effetti collaterali potenzialmente mortali (il tamoxifene, ad esempio, puo` provocare ictus, trombi e cancro all’utero, radio e chemioterapia indeboliscono il cuore e la chirurgia pure ha i suoi rischi).
A molte di queste donne viene diagnosticato il carcinoma in situ, o cancro a “stazio zero”, le cui cellule si trovano nel rivestimento dei dotti galattofori. Prima dello screening a tappeto, il cancro in situ era raro. Adesso insieme all’ancor meno comune carcinoma lobulare in situ costituisce circa un quarto dei nuovi casi di cancro al seno, circa 60.000 l’anno. I carcinomi in situ sono piu` comuni tra le quarantenni. Secondo l’Istituto Superiore di Sanita`, entro il 2020, piu` di um milione di americane ricevera` una diagnosi di carcinoma in situ.
Le sopravvissute al carcinoma in situ vengono celebrate come trionfi della diagnosi precoce nel corso degli eventi in rosa: la loro e` una malattia trattabile facilmente con quasi il 100% di sopravvivenza a 10 anni. Il problema e` che, nella maggioranza dei casi (le stime variano dal 50 all’80%), il carcinoma in situ rimane la dov’e`: “in situ” significa “sul posto”. A meno che non si trasformi in un carcinoma infiltrante, il carcinoma in situ manca della capacita` di diffondersi oltre il seno, quindi non diventa letale. Le autopsie hanno dimostrato che il 14% delle donne morte per altre cause non sapevano di avere un carcinoma in situ.
Al momento non c’e` modo di sapere quale carcinoma in situ diventera` infiltrante, quindi ogni caso viene trattato come potenzialmente letale. Secondo Laura Esserman, direttrice del Carol Franc Buck Breast Cancer Center dell’Universita` di San Francisco le cose vanno cambiate. [...] “Il carcinoma in situ non e` cancro” –spiega – “e` un fattore di rischio. C’e` solo il 5% di probabilita` che una lesione in situ si transformi in infiltrante nell’arco di 10 anni. E` la stessa percentuale di rischio di una donna di 62 anni. Non sottoponiamo i pazienti con ipercolesterolemia a interventi chirurgici al cuore. Cosa stiamo facendo a queste donne?” "

continua

sabato 27 aprile 2013

Metastasi



                                                   Foto di Angelo Merendino

                                            http://mywifesfightwithbreastcancer.com/


Tra i posti che amo di piu` al mondo ci sono le biblioteche e le librerie. Quando ho bisogno di rilassarmi, se non ho una biblioteca a portata di mano, vado in libreria. E` stata una delle prime cose che ho fatto quando sono tornata in Italia, dopo la diagnosi. Sono entrata in una libreria, l'unica, della mia citta`. Ho cominciato a scorrere velocemente i titoli dei volumi in esposizione. Uno mi e` letteralmente rimbalzato in faccia: "Metastasi". Un libro che, ho scoperto dopo, non ha niente a che fare col cancro, ma capace, in quel frangente, di farmela dare a gambe.
Non volevo neanche sentirla quella parola allora. E anche adesso non mi piace. Non piace a nessuno, soprattutto a chi col cancro ci vive. Eppure, il mio atteggiamento e` cambiato. Se penso che potrei scoprire di avere una metastasi provo ancora il senso di horror vacui che provavo prima. Adesso, pero`, ho delle risorse in piu`. Le foto splendide di Jennifer e Angelo Merendino, ad esempio. Il racconto fotografico della malattia, ma anche dell'amore per la vita di questa donna come me, che pochi mesi prima di morire, tra una chemio e l'altra, decide di fare il bagno nell'oceano. O le donne conosciute virtualmente attraverso twitter, radunate sotto l'hashtag bcsm. Alcune di loro hanno metastasi e raccontano della loro malattia, ma anche della loro vita quotidiana. Piu` interagisco con loro e meno le metastasi mi fanno paura. Forse semplicemente perche` so che, se dovessero arrivare, cerchero` di fare come fanno loro. E potro` contare sulla loro solidarieta` e vicinanza. Forse e` questa la chiave: pensare solo a portare a casa la propria pelle e chiudersi in un recinto di paura che tiene lontani da chi vive esperienze che si spera di evitare non serve a nulla e finisce con alimentarla la paura. L'abbraccio fraterno, la vicinanza degli spiriti e dei cuori, la solidarieta` ci fanno sentire meno soli e ci danno coraggio. Persino di fronte alla morte.

giovedì 18 aprile 2013

Breast cancer out of Italian university

This post is for my Anglophone readers. It is for all the people who read this blog outside Italy. I need your help. A couple of weeks ago I got a terrible news. The module of Gender Studies taught by Dr. Laura Corradi at the University of Calabria will no longer be available to students. Dr. Laura Corradi is a sociologist. She obtained her PhD from the University of California Santa Cruz. Her dissertation focused on the debate on genetics and environmental causes of cancer. To date, her book Nuove Amazzoni (New Amazons) is the only book on the breast cancer activism available in Italian. Officially the module was shut down because of a government decree urging Universities to cut costs, but Laura was teaching for free. She wasn't getting a single euro to teach that module. What's the reason then? Maybe someone doesn't like Laura's research topic or her approach?
I would be really grateful if you could sign this petition and send the following email to the vice-chancellor's address: giovanni.latorre@unical.it

"Dear Giovanni Latorre,

The course of Gender Studies at the University of Calabria, taught in Rende at the Department of Sociology by Laura Corradi won’t exist anymore because they have decided to close it down.
The success of the last ten years notwithstanding, the course, attended by hundreds of students, has been made smaller and smaller despite the students’ determination to attend it and the professor’s determination to teach it for free. Students denounce that the course has been placed at the same time of other important and compulsory activities. Made difficult to be attended, the course has been reduced this year to 15 students. This way, it became very easy to frame it as superfluous teaching and to close it down. The course has been an important site of empowerment for many girls, young feminist doctoral students, migrant researchers, precarious subjects engaged in feminist thought and practice, many people who in fact refuse to passively accept this decision. Moreover, the course constitutes in the context of the region Calabria a great opportunity for women and men who want to acquire the critical skills to interpret their own reality. This course should remain an opportunity for those who chose it or better, we even think that gender studies must be valorized and that the University could establish them as basic courses in the first year, as example of interdisciplinary theoretical and practical knowledge, as a critical vision so needed in the face of a culture that fixes gender roles, pathologizes and inferiorizes differences, imposes hetero-normativity. Therefore, we demand the course of Gender Studies to be reintegrated, with adequate economic resources, in the curriculum offered by the University of Calabria.
Signature"

 Thanks a lot!

martedì 16 aprile 2013

Zitte mai - Mail bombing

Vi ho gia` parlato di Laura Corradi, la docente di Studi di Genere presso l'Universita` della Calabria a cui hanno chiuso il corso, cosi`, senza nemmeno consultarla, perche` non ci sono tanti soldi e perche` in fondo Studi di Genere e` una materia non troppo importante.
Laura Corradi, vi dicevo, e` l'autrice di Nuove Amazzoni, l'unico libro in italiano sul movimento delle donne contro il cancro al seno:

"Ho iniziato a occuparmi di cancro nel 1988, in seguito a una diagnosi di carcinoma. Ero studentessa lavoratrice: finiti gli esami all'Universita`, stavo iniziando il lavoro di tesi. Il tumore fu trattato con successo e mi laureai l'anno successivo, a pieni voti. Tale esperienza mi cambio` profondamente: all'improvviso diventava facile capire che cosa fosse importante fare e che cosa non lo fosse. Vinsi due borse di studio in California, dove mi dedicai alla ricerca sulle cause di cancro e la loro prevenzione, un ambito ancora trascurato nelle scienze sociali in Italia"

Prima di iscriversi all'Universita`, a 23 anni, Laura faceva l'operaia. La sua tesi di laurea, pubblicata col titolo Il tempo rovesciato. Quotidianita` femminile e lavoro, racconta la storia delle sue colleghe di lavoro costrette a lavorare di notte. Poi la malattia e la decisione di partire per gli Stati Uniti per condurre la ricerca di cui in Nuove Amazzoni e` contenuta solo una parte. Poteva restarsene la`, Laura. E invece ha deciso di tornare e di esporsi sulla linea del fuoco. E` andata a insegnare Studi di Genere all'Universita` della Calabria. Il suo corso e` stato tra i primi in Italia. Anni di lavoro intenso, con migliaia di studenti che hanno avuto la fortuna di averla come docente. Una docente talmente atipica che con i suoi studenti ha scritto un libro, l'ultimo, Specchio delle sue brame. "E` una ricerca che nasce dalla didattica" - racconta ai microfoni di Radio Tre - "Avevamo una settimana durante il corso in cui raccoglievamo le pubblicita`, insegnavo agli studenti come fare una analisi semiotica e poi ci divertivamo a ricombinarle, a decostruirle, a decodificarle. Per dieci anni ho fatto questa cosa ed e` diventata la parte piu` interessante del corso". Un corso che Laura svolgeva a titolo completamente gratuito. Non prendeva un soldo. Difficile allora spiegarne la chiusura con problemi di costi. Si vede che la voce di Laura dava fastidio. La sua intelligenza era considerata eversiva. Il suo carisma pericoloso. E allora si e` pensato di tapparle la bocca.
Nei giorni passati molte firme in suo sostegno sono state raccolte dal blog Femminismo a Sud. Le sole firme pero` non bastano, secondo me. Quello che e` stato fatto a Laura Corradi e al suo corso e` profondamente violento. Una violenza mascherata, subdola come spesso e` la violenza del potere, ma non per questo meno nociva. E allora forse anche noi, nel rispondere, dovremmo essere piu` incisivi e rivolgerci direttamente a chi questa decisione violenta l'ha sottoscritta. La violenza di genere, contro le donne, contro gli omosessuali, contro i migranti, contro chiunque sia considerato "diverso" e` una delle piaghe di questo paese. Il corso di Laura Corradi educava al rispetto e smascherava i meccanismi di potere che stanno alla base dell'oppressione nei confronti di chi non e` conforme alla "norma". Chiuderlo significa essere complici di quell'oppressione e di quella violenza.
Ogni mattina, quando vi svegliate, mentre sorseggiate il caffe`, mandate una mail al Rettore dell'Universita` della Calabria. Ma fatelo anche ogni volta che siete testimoni di un atto di discriminazione e di violenza nei confronti di una donna, di un gay, di una lesbica, di un trans, di un migrante. Ogni volta che la realta` tristissima in cui viviamo vi sbatte in faccia l'importanza di un corso come quello di Laura Corradi. Se non volete scrivergli qualcosa di vostro pugno, fate un semplice copia e incolla del testo qui sotto. Indirizzate la mail a giovanni.latorre@unical.it , specificando in oggetto: zitte mai!

"Gentile Giovanni Latorre,

Il Corso di Studi di Genere dell’Università della Calabria, tenuto a Rende presso il Dipartimento di Sociologia da  Laura Corradi, (ricercatrice docente) non esisterà più perché hanno deciso di chiuderlo. A dispetto del successo dello scorso decennio, frequentato da centinaia di studentesse, il Corso è stato via via rimpicciolito, nonostante la determinazione delle studentesse a seguirlo e della docente a tenerlo a titolo gratuito. Le studentesse denunciano che è stato piazzato alla stessa ora di altri appuntamenti importanti e obbligatori. Reso difficile da seguire si è ridotto quest’anno a 15 allieve. Tagliare via questo Corso come materia superflua è diventato così molto semplice. Il Corso è stato una importante palestra di empowerment per tantissime ragazze, giovani femministe dottorande in cerca di audience, ricercatrici migranti, precarie ‘cultrici della materia’, tante persone che infatti non accettano passivamente questa decisione. Tra l’altro il Corso nel contesto calabrese rappresenta una reale opportunità per donne e uomini che vogliono acquisire gli strumenti critici per leggere anche la propria realtà. Questo Corso di Studi dovrebbe rimanere una opportunità per coloro che lo preferiscono, anzi crediamo che gli studi di genere dovrebbero essere valorizzati,  l’Università potrebbe usarli come corsi base del primo anno, come esempio di sapere teorico e pratico  interdisciplinare, come visione critica necessaria di una cultura che  fissa i ruoli di genere, patologizza le differenze o le inferiorizza, impone etero-normatività. Chiediamo perciò che si reinserisca il Corso di Studi di Genere, con risorse adeguate, nell’offerta formativa dell’Ateneo.

Firma"

lunedì 15 aprile 2013

Di chi sono i nostri geni?




Circa il 5% dei casi di cancro al seno e` causato da mutazioni genetiche. Sino ad ora sono stati identificati due geni, cosiddetti oncosoppressori, che se mutati e quindi non funzionanti in modo corretto, possono aumentare le probabilita` di sviluppare la malattia. Su questi geni, identificati come BRCA1 e BRCA2, negli Stati Uniti c'e` un brevetto. I geni sono cioe` di "proprieta`" della compagnia che se n'e` arrogata la scoperta, la Myriad Genetics. No, non e` uno scherzo. Chiunque voglia sapere se e` portatrice di una mutazione a questi due geni deve sottoporsi al test che Myriad eroga alla modica cifra di 4000 dollari. Qualunque altra compagnia per erogare il test deve comunque pagare i 4000 dollari a Myriad, cosa che fa lievitare di non poco i costi che, ricordiamolo, negli Stati Uniti ricadono sui pazienti stessi tranne i pochi casi in cui questi ultimi siano coperti da buone assicurazioni. Non solo, ma Myriad che ha quindi da anni, precisamente dal 1994, raccolto e conservato migliaia di campioni di DNA prelevati in maggioranza a donne malate di cancro al seno o con familiarita` si rifiuta di condividere con il resto del mondo scientifico questo immenso database. Perche`? Perche` e` roba importante, che potrebbe portare a scoperte grosse, forse anche risolutive per la malattia. E allora Myriad vuole tenersela per se`, per metterci un altro brevetto sopra e farci altri soldi. Pare, inoltre, che a partire proprio da quest'anno, con l'apertura di una sede a Monaco, Myriad abbia deciso di invadere anche il mercato europeo destando preoccupazione dei ricercatori.
Chi poteva opporsi a cotanto gigante? Nessuno, se non le coraggiosissime donne di Breast Cancer Action, associazione statunitense che si batte per i diritti delle donne che vivono col cancro al seno, che hanno trascinato Myriad di fronte alla Corte Suprema. La prima udienza si e` tenuta oggi, insieme a una nutrita manifestazione davanti al tribunale. Il brevetto sui nostri geni va eliminato, chiedono le attiviste di Breast Cancer Action. A Myriad deve essere vietato di lucrare sulla malattia e imposto di mettere a disposizione il patrimonio di dati acquisiti fino ad ora a disposizione della comunita` scientifica. 

giovedì 11 aprile 2013

La preghiera dei Kuhn

Finivo il corso alle 6. Fuori era gia` buio. Il campus era oscuro e gli alberi senza foglie, stecchiti. Il silenzio si addiceva allo strascico di sgomento che insegnare Se questo e` un uomo mi lasciava nel cuore.
E` stato molto tempo fa. Era l'ultimo inverno prima della malattia, che allora non esisteva. Oggi, ho riascoltato per caso un'intervista radiofonica a Primo Levi. Verso la fine, Levi ricorda uno dei passaggi piu` significativi del libro, quando racconta del vecchio Kuhn. Al termine di una delle "selezioni", cui gli internati di Auschwitz erano sottoposti e durante le quali nel giro di un paio di secondi si decideva, su base totalmente casuale, della loro vita e della loro morte, il vecchio Kuhn prega:

"A poco a poco prevale il silenzio, e allora, dalla mia cuccetta che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio Kuhn prega, ad alta voce, col berretto in testa e dondolando il busto con violenza. Khun ringrazia Dio perchè non è stato scelto.
Khun è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent'anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell'uomo di fare, potrà risanare mai più?
Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn."



Il vecchio Kuhn mi fa pensare a quelli che si autoproclamano sopravvissuti al cancro. Non posso, ogni volta che quella parola e l'aurea di trionfo che la circonda giungono alle mie orecchie, fare a meno di sentire le voci straziate dei tanti Beppo che aspettano la morte o l'hanno gia` trovata. E anch'io, come Levi, credo che se fossi Dio sputerei a terra la preghiera dei Kuhn.

mercoledì 3 aprile 2013

#zittemai





Laura Corradi e` una sociologa. Insegna all'Universita` della Calabria e 12 anni fa, in Calabria, si proprio in Calabria, ha messo su uno trai i primi corsi universitari in Italia di Studi di Genere. Badate bene, non un master, a cui accedere magari pagando qualche bel migliaio d'euro, o un dottorato, roba da specialisti anche un po` fissati, ma un corso universitario di primo livello, diretto ai tantissimi studenti di corso di laurea che, per anni, l'hanno seguita con entusiasmo.

Laura Corradi e` l'autrice di "Nuove Amazzoni", l'unico - e lo voglio scrivere almeno altre 3 volte - l'unico l'unico l'unico libro in italiano sul movimento delle donne contro il cancro al seno. E` il risultato divulgativo della sua ricerca di dottorato, condotta presso l'Universita` della California.

Ieri, il Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo di Stefania Prandi che denuncia la chiusura d'ufficio da parte dell'Universita` della Calabria del corso di Laura Corradi. Gli studenti non potranno piu` seguirlo e perderanno tantissimo. Perderanno una docente appassionata e carismatica. Perderanno l'occasione di ascoltare, tra le tante cose, quanto di rivoluzionario Laura ha avuto il coraggio di dire per prima in Italia:

"I fattori di rischio sono infatti socialmente prodotti, cosi` come i comportamenti delle persone che questi rischi sceglierebbero (piu` o meno liberamente) di assumere"

Che fare? Leggiamo Nuove Amazzoni, facciamo girare questo scritto di Laura Corradi, pubblicato nel 2003 dal Ministero delle Pari Opportunita`, e diciamo forte e chiaro: zitte mai!