Eccovi la seconda e ultima parte degli stralci piu` importanti dell'articolo di Peggy Orenstein, uscito sul New York Times Magazine lo scorso 25 aprile. La prima parte la trovate qui. Il casino successo con Angelina Jolie rende il saggio della Orenstein ancora piu` interessante. Ne riparleremo.
"L’estate scorsa, nove mesi dopo la mammografia di routine, mentre stavo per
mettermi a letto chiacchierando con mio marito, le mie dita hanno sfiorato
qualcosa di piccolo e duro sotto la cicatrice sul seno sinistro. In un attimo,
ho attraversato di nuovo la membrana sottile che separa i sani dai malati.
Quest’ultimo tumore era piccolo e circoscritto come il primo. Difficilmente si
era diffuso. Naturalemente, pero`, andava rimosso. Dato che la quadrantectomia
dev’essere seguita da radioterapia e non si puo` irradiare la stessa parte due
volte, l’unica opzione era la mastectomia. Mi e` stato prescritto anche il
tamoxifene, per ridurre le probabilita` di metstasi dal 20 al 12%. Dovrei
sopravvivere, ma nessuno puo` garantirlo. Non mi sara` possibile sapere se sono
guarita finche` non moriro` di qualcos’altro, possibilmente tra molti anni,
mentre dormo stringendo la mano di mio marito, dopo una bella cena con i nipotini.
L’istinto questa volta mi diceva di togliere anche l’altro seno. Non volevo
che potesse succedere di nuovo. Il mio oncologo non era d’accordo, pero`. Il
tamoxifene avrebbe ridotto il rischio di recidiva rendendolo pari a quello di
una donna sana. Una donna sana si farebbe tagliare il seno? Potevo optare per
la chirurgia preventiva, aggiunse, ma si trattava di una questione psicologica
non medica.
Ho fatto le mie valutazioni man mano che la data dell’intervento si
avvicinava. Il rischio medio, d’altra parte, non e` zero. Potevo conviverci?
Una parte di me desiderava eliminare qualsiasi rischio. Ho una figlia di nove
anni. Farei qualsiasi cosa – ho bisogno di fare qualsiasi cosa – pur di non morire. Eppure se il problema e` la
morte, la minaccia piu` grossa non viene dall’altro seno ma dalla possibilita`
che, nonostante i trattamenti e la prognosi favorevole, il cancro che gia` ho
vada in metastasi. La mastectomia preventiva non avrebbe potuto far nulla
contro cio`, ne` avrebbe potuto azzerare del tutto la probabilita` di una nuova
malattia, perche` una parte del tessuto rimane sempre. Potevo vivere cosi`? Una
parte di me voleva liberarsi di qualsiasi minaccia. Ho una figlia di nove anni
e farei qualsiasi cosa – ho bisogno di
fare qualsiasi cosa – pur di evitare
di morire. Tuttavia, se il problema era la morte, il pericolo piu` grosso non
era l’altro seno ma che, nonostante le terapie e la prognosi favorevole, il
cancro fosse gia` andato in metastasi. La mastectomia preventiva non avrebbe
potuto evitarlo, ne` avrebbe potuto eliminare del tutto la possibilita` di un
nuovo tumore, perche` parte del tessuto rimane sempre.
Cosa significa “qualsiasi cosa”, comunque? Ci sono giorni in cui non metto
la protezione solare, non faccio attivita` fisica come dovrei, non ho smesso di
mangiare il Gouda stagionato nonostante i risultati delle mie ultime analisi
per il colesterolo, non assumo abbastanza calcio e, si, casa mia e` a sei
isolati da una faglia. Vivere con una certa percentuale di avere il cancro al
seno e` davvero cosi` diverso? Decisi di seguire il consiglio del mio medico,
di fare solo cio` che era necessario.
Pensavo che il mio dilemma fosse poco comune e che derivasse dal fatto di
essere stata troppe volte dal lato sbagliato delle statistiche. Sembra tuttavia
che centinaia di donne ora considerino la doppia mastectomia a seguito di
carcinomi poco aggressivi. Secondo Todd Tuttle, capo della divisione di
chirurgia oncologica e primo autore di uno studio sulla mastectomia
profilattica pubblicato su The Journal of Clinical Oncology, si e` verificato
un aumento del 188% tra il 1998e il 2005 tra le donne a cui e` stato
diagnosticato un carcinoma in situ in un seno – un fattore di rischio per il
cancro – che hanno deciso di farseli asportare entrambi. Tra le donne con
carcinoma duttale allo stadio iniziale (come il mio), l’aumento e` stato del
150%. Molte di queste donne non hanno una predisposizione genetica al cancro.
Tuttle avanzava l’ipotesi che stessero decidendo sulla base non di quanto
consigliato loro dai medici ma su una percezione esagerata del rischio di avere
il cancro all’altro seno. Le donne intervistate per un altro studio credevano
che il rischio fosse del 30% nell’arco di dieci anni, mentre era solo del 5.
Non e` stato molto tempo fa che le donne si sono battute per conservare il
seno dopo il cancro, facendo pressioni sui chirurghi perche` sostituissero le
mastectomie radicali con l’egualmente efficace nodulectomia accompagnata da
radioterapia. Perche` le cose sono cambiate? Ci penavo mentre curiosavo tra le
“Storie di Speranza” sul sito dell’American Cancer Society. Mi sono imbattuta
in una bella donna con una T-shirt rosa addosso, sorridente mentre stringe in
mano un cupcake glassato decorato con una candelina rosa. Parlando in prima
persona, diceva che aveva cominciato i controlli verso i 35 anni perche`
affetta da mastopatia fibrocistica. A 41 anni, le era stato diagnosticato un
carcinoma in situ trattato con nodulectomia e radioterapia. “Mi sento fortunata
ad averlo preso in tempo”, diceva, pur aggiungendo di essere uscita
emotivamente devastata da quell’esperienza. Ha continuato i controlli e si e`
sottoposta a interventi multipli per rimuovere cisti benigne. Quando ha saputo
di avere il cancro al seno di nuovo, era al suo quinto intervento Ha deciso di
rimuovere il seno completamente, una decisione che considerava logica e di
preventiva.
Mi sono ritrovata a pensare a una spiegazione alternativa per il caso di
questa donna. La mastopatia fibrocistica non lascia presagire il cancro,
sebbene distinguere tra un nodulo benigno e uno maligno possa essere difficile,
facendo aumentare potenzialmente il numero di biopsie inutili. Avendo iniziato
i controlli a 30 anni questa donna e` stata esposta a un eccesso di radiazioni,
una delle poche cause note del cancro al seno. Il suo carcinoma in situ,
condizione diagnosticabile quasi esclusivamente attraverso la mammografia,
difficilmente avrebbe messo a rischio la sua vita, eppure l’ha trasformata in
una sopravvissuta al cancro al seno, con tanto di operazione e settimane di
radioterapia. Alla seconda diagnosi, era cosi` sconvolta che si e` fatta
amputare entrambi i seni per ristabilire il controllo della situazione. Questa
donna va salutata come una sopravvissuta o additata come un ammonimento? La
consapevolezza le ha conferito potere decisionale o ne ha fatto una vittima? La
paura del cancro e` legittima: il modo in cui gestiamo quella paura, mi sono
resa conto – come rispondiamo ad essa, che emozioni proviamo – puo` essere
manipolato, impacchettato, commercializzato e venduto, talvolta proprio da chi
sostiene di stare dalla nostra parte. Da chi puo` influenzare qualsiasi cosa,
dalla nostra percezione dello screening, alla nostra valutazione del rischio
personale alla scelta dei trattamenti. “Si puo` attribuire l’aumento delle
mastectomie a una migliore conoscenza della genetica o al miglioramento delle
tecniche di ricostruzione” dice Tuttle, “cose che ci sono anche in Europa dove
pero` non c’e` questa mania della mastectomia. C’e` cosi` tanta consapevolezza
negli Stati Uniti che l’ho ribattezzata sovra-consapevolezza sul cancro al
seno. E` dovunque. I camion della spazzatura sono rosa. Le donne sono
terrorizzate”
“Circa 40.000 donne e 400 uomini muoiono ogni anno di cancro al seno” dice
Lynn Erdman, vice presidente della sezione di salute pubblica di Komen. “Finche`
questi numeri non spariranno, non ci sara` abbastanza rosa”.
Ero seduta nella sala conferenze del quartier generale di Susan G. Komen,
vicino al centro commerciale Galleria a Dallas. Komen non e` la piu` grande
associazione benefica per il cancro, titolo che spetta all’American Cancer
Society, ma e` comunque la piu` grande organizzazione a occuparsi di cancro al
seno. E sebbene l’anno scorso l’immagina di Komen sia stata appannata dal
tentativo di tagliare i finanziamenti per lo screening a Planned Parenthood, il
suo nome rimane virtualmente sinonimo di lotta al cancro al seno. Con le sue
dozzine di corse per “cura” e circa 200 sponsor, e` l’associazione che forse
piu` di tutte e` riuscita a fare di una malattia un marchio. Il suo marketing
martellante ha reso il nastro rosa uno dei logo dei nostri tempi. Il nastro
simboleggia sia la paura della malattia che la speranza di poterla sconfiggere.
E` un simbolo di coraggio per chi e` malato e un’espressione di solidarieta` da
parte di coloro a cui la questione sta a cuore. E` una promessa di progresso
continuo verso una cura attraverso donazioni, corse, volontariato. Fa
comunita`. Offre alle compagnie un modo apparentemente infallibile to mostrare
buona volonta` verso le donne, anche sebbene, attraverso una pratica definita
dai critici “pinkwashing”, i loro prodotti siano legati alla malattia o ad
altre minacce alla salute pubblica. Far indossare alle squadre di calcio scarpe
colorate di rosa, ad esempio, puo` controbilanciare la pressione che la Lega
Calcio Americana deve gestire per le accuse di stupro e violenza domestica
rivolte ad alcuni giocatori. Le donazioni della Chevron agli affiliati di Komen
in California aiuta a nascondere quello che il locale Dipartimento di Relazioni
Industriali ha definito “consapevole violazioni” della sicurezza che hanno
portato al grosso incendio di una raffineria in un quartiere della Bay Area l’anno
scorso.
Piu` di qualsiasi altra cosa, tuttavia, il nastro ci ricorda che tutte noi
siamo a rischio e che la migliore protezione e` lo screening annuale.
Nonostante il marchio di fabbrica di Komen sia “per la cura”, solo il 16% dei
472 milioni di dollari raccolti nel 2011, l’ultimo anno per cui sono disponibili
i bilanci, e` stato devoluto alla ricerca. 75 milioni di dollari sono abbastanza
per credere che dare credito alla rivendicazione che Komen ha avuto un ruolo in
tutte le principali scoperte sul cancro al seno negli ultimi 29 anni. Questa
cifra, tuttavia, e` niente in confronto ai 231 milioni che la fondazione spende
per educazione e screening.
Sebbene adesso Komen renda conto del
dibattito sullo screening sul suo sito web, la fondazione e` stata piu` volte
accusata di esagerare i benefici della mammografia e sminuirne i rischi. Steve
Woloshin, un collega di Welch al Darmouth Institute for Health Policy and
Clinical Practice e co-autore di un articolo pubblicato nella sezione Not so
Stories sul British Medical Journal, ha puntato il dito contro una recente
cartellone pubblicitario di Komen dove si legge “Le probabilita` di
sopravvivenza a cinque anni al cancro al seno con la diagnosi precoce sono del
98%. E senza? Scendono al 23%”. Woloshin definisce quest’affermazione
volutamente ingannevole. Le cifre sono corrette ma la sopravvivenza a cinque
anni e` un parametro fuorviante distorto dallo stesso screening. La mammografia
individua molti tumori che non necessitano di alcun trattamento e che sono, per
definizione, guaribili. Nel frattempo, alcune donne colpite dalla malattia in
maniera letale sembrano vivere piu` a
lungo perche` il tumore e` stato diagnosticato prima, ma in realta`, ad
allungarsi e` solo la consapevolezza di essere malate. “Immaginiamo un gruppo
di 100 donne che riceve una diagnosi di cancro al seno perche` ha sentito un
nodulo al seno a 67 e a 70 sono tutte morte. In questo caso la sopravvivenza a
5 anni e` dello 0%. Ora immaginiamo che lo stesso gruppo di donne venissero
sottoposte a controlli e ricevessero la diagnosi a 64 anni, con 3 anni di
anticipo, ma che i trattamenti non funzionassero e morissero comunque a 70
anni. La sopravvivenza a 5 anni in questo secondo caso e` del 100%, anche se
nessuna di loro e` vissuta un secondo di piu` delle altre.
Quando a gennaio ho chiesto a Chandini Portteus,
vicepresidente della sezione di ricerca, valutazione e programmi scientifici di
Komen, perche` la fondazione continuasse a usare quelle statistiche, la sua
risposta e` stata molto evasiva: “Komen non aveva intenzione di fornire dati
fuorvianti. Sappiamo che la mammografia non e` perfetta, ma sappiamo anche che
e` cio` che abbiamo a disposizione e che e` importante per diagnosticare il
cancro al seno” (I dati sono stati successivamente rimossi dal sito).
Nel suo libro Pink Ribbons Inc., la sociologa Gayle Sulik, fondatrice del Breat
Cancer Consortium, ha riconosciuto a Komen il merito di aver reso la malattia
conosciuta, incoraggiando le donne a parlarne e trasformandole da “vittime” in “sopravvissute”.
Komen, dice Sulik, ha distribuito piu` di un milioni di dollari alla ricerca e
progetti di supporto. Allo stesso tempo, la funzione della cultura del nastro
rosa – e di Komen in particolare – e` diventata piu` l’auto-perpetuazione della
malattia piuttosto che il suo eradicamento: mantenere alta la visibilita` della
malattia e continuare a raccogliere fondi. “Bisogna guardare gli obiettivi di
ogni programma” – dice la Sulik – “Se l’obiettivo e` eradicare il cancro al
seno, quanto siamo vicini? Non siamo vicini affatto. Se l’obiettivo e` la
consapevolezza, che cosa ci fa essere consapevoli? Che il cancro al seno
esiste? Che e` importante? Il concetto di “consapevolezza” e` stato esteso al
punto da diventare un mero sinonimo di “visibilita`”. Ed e` qui che il
movimento contro il cancro al seno ha sbagliato. E` qui che ha perso l’occasione
di andare avanti”.
Prima del nastro rosa la consapevolezza
fine a se stessa non era l’obiettivo predefinito delle campagne riguardanti la
salute. Oggi e` difficile trovare una malattia senza un logo, un ornamento da
indossare, una lista di prodotti abbinati tra loro. Le malattie cardiache hanno
il loro vestito rosso, il cancro al testicolo il suo braccialetto giallo.
Durante “Movember”, una parola composta da “moustache” [baffi] e “November”
[novembre], gli uomini sono incitati a farsi crescere la barba perche` si
sparga la voce e la consapevolezza sul cancro alla prostata (un’altra malattia
per la quale la diagnosi precoce ha portato al sovratrattamento) e sul cancro
ai testicoli. “Queste campagne sono accomunate dalla stessa superficialita` per
quanto riguarda la responsivita` richiesta al pubblico”, dice Samantha King,
professore associato di chinesiologia e salute all’Universita` dell’Ontario e
autrice di Pink Ribbons Inc.. Sono
completamente slegate da qualsiasi critica alle politiche sanitarie e alla
ricerca biomedica. Rinforzano un modello monotematico e competitivo di raccolta
dei fondi. E dissimulano le malattie: veniamo resi “consapevoli” di una
malattia e allo stesso tempo completamente separati dalla realta` difficile e
spesso devastante di chi ne e` affetto”.
[...]
Invece di assicurare che “le mammografie
salvano vite”, le associazioni potrebbero utilizzare slogan piu` realistici per
le loro campagne. Secondo il ricercatore Gilbert Welch, “La mammografia ha sia
benefici che costi – per questo e` una decisione personale”. Era questo il messaggio
della task force, messa da parte per questioni politiche nel 2009: l’evidenza
scientifica indica che ha senso fare la mammografia ogni anno tra i 50 e i 74
anni d’eta`. Chi non rientra in questo gruppo e vuole fare la mammografia, deve
essere informata del rovescio della medaglia.
Le donne sono oggi tutte consapevoli del
cancro al seno. Qual e` il prossimo passo allora? Per eradicare la malattia (o
almeno ridurne l’incidenza e la devastazione) c’e` probabilmente bisogno non
tanto di raccogliere fondi quanto di distriburgli meglio. Quando ho chiesto a
scienziati e sostenitori, come spendere diversamente almeno parte dei fondi
raccolti con le campagne di consapevolezza, le loro risposte sono state ampie e
variegate. Molti hanno sottolineato quanto magri siano i fondi destinati al
lavoro sulla prevenzione. A febbraio, per esempio, un comitato di sostenitori,
scienziati e funzionari di governo ha chiesto di aumentare la quantita` di
risorse destinate a studiare le cause ambientali del cancro al seno. Hanno dato
al termine un significato molto ampio in modo da includere comportamenti come
il consumo di alcool, esposizione a sostanze nocive, radiazioni, disparita`
socio-economiche.
Altri scienziati guardano con entusiasmo
alla possibilita` di combattere o prevenire la malattia modificando il “microambiente”
del seno – il tessuto che circonda il tumore che puo` stimolarne o bloccarne la
crescita. Susan Love ha fatto il paragone con il modo in cui vivere in un
quartiere bene o malfamato possa influenzare il destino di un bambino
potenzialmente delinquente. “Potrebbe essere”, mi ha detto, “che cambiando il “quartiere”,
quello che sta intorno, che sia il sistema immunitario o il tessuto, possiamo
controllare o uccidere le cellule cancerose. Fare la terapia sostitutiva
durante la menopausa potrebbe essere stato l’equivalente biologico del
permettere agli spacciatori di colonizzare gli angoli delle strade. D’altra
parte, un vaccino, l’obiettivo attuale di alcuni scienziati e sostenitori,
potrebbe essere come impiegare piu` poliziotti di quartiere.
Quasi tutti concordano nel sostenere che c’e`
ancora molto lavoro da fare da entrambe le parti dello spettro diagnostico:
distinguere quali lesioni in situ si trasformeranno in carcinomi infiltranti
cosi` come comprendere il meccanismo delle metastasi. Secondo l’anaisi della
rivista Fortune, solo il 5% dei finanziamente del National Cancer Institute a
partire dal 1972 sono andati a ricerche sulle metastasi. Dei 2 miliardi e 200
milioni di dollari raccolti negli ultimi sei anni, Komen ha destinato solo 79
milioni a questo tipo di ricerche – parecchio denaro, non c’e` dubbio, ma un
mero 3.6% di quanto raccolto in quel periodo.
“Molta gente pensa che il lavoro sulle metastasi
sia uno spreco di tempo”, dice Danny Welch, capo del dipartimento di biologia
del Cancer Center dell’Universita` del Kansas, “perche` bisogna prima di tutto
prevenire il cancro. Il problema e` che non sappiamo ancora cosa lo causa.
Preferirei anch’io prevenirlo del tutto, ma detto in soldoni, un atteggiamento
del genere equivale a buttare sotto un treno un mucchio di persone”.
108 donne americane muoiono di cancro al
seno ogni giorno. Alcune possono vivere anche un decennio o piu` con le
metastasi, ma la sopravvivenza media e` 26 mesi. Un pomeriggio ho parlato con
Ann Silberman, autrice del blog “Breast Cancer? But Doctor...I Hate Pink”.
Silberman ha cominciato a scrivere nel 2009, all’eta` di 51 anni, dopo aver
trovato un nodulo nel seno che e` risultato poi essere cancro al secondo
stadio, che le dava – cosi` le venne detto – il 70% di probabilita` di
sopravvivenza. All’epoca era segretaria in una scuola a Sacramento, felicemente
sposata e madre di due ragazzi, di 12 e 22 anni. Nei due anni successivi, e`
stata operata, ha fatto sei cicli di chemioterapia, e` stata trattata con un
terzetto di farmaci incluso l’Herceptin e pensava di aver risolto.
Quattro mesi dopo, un mal di schiena e un
rigonfiamento addominale la spinsero ad andare dal medico. Il cancro si era
diffuso al fegato. Perche` le terapie non hanno funzionato? Nessuno lo sa. “A
questo punto sai che morirai e che sara` nei prossimi cinque anni”, mi ha
detto. Il suo obiettivo e` vedere suo figlio piu` piccolo finire le superiori a
giugno.
Non e` facile rapportarsi a qualcuno con
le metastasi, soprattutto se si e` avuto il cancro. Quello che e` successo alla
Silberman e` la mia piu` grande paura; la notte dopo la nostra chiacchierata,
sono stata perseguitata dall’incubo che il cancro tornasse. Probabilmente per
questo motivo, le pazienti metastatiche sono assenti dalle campagne del nastro
rosa e raramente vengono invitate a parlare durante eventi di raccolta fondi o alle
corse. Lo scorso ottobre, per la prima volta, una donna con cancro al quarto
stadio figurava nella pubblicita` di Komen, ma le sue parole enfatizzavano
cautamente il lato positivo: “Sebbene oggi, il tumore sia arrivato a ossa,
fegato e polmoni, Bridget continua ancora a sperare” (Bridget e` morta all’inizio
di questo mese).
“Tutto quelle parole sulla consapevolezza
non ci riguardano”, dice Silberman. “Riguardano la sopravvivenza, noi non
sopravviveremo. Staremo male. Perderemo parte del nostro fegato. Verremo
attaccate all’ossigeno. Moriremo. Non e` bello e non da speranza. La gente
vuole credere nella “cura” e vuole credere che la cura sia la diagnosi precoce.
Ma sai cosa? Non e` vero”.
Il progresso scientifico e` irregolare,
imprevedibile. “Brancoliamo tutti nel buio”, dice Peter B. Bach, direttore del
Centro per le Politiche Sanitarie del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center. “Quello
che posso dire e` che qualcosa dara` i suoi frutti”. Ci sono alcune terapie,
come il tamoxifene o l’Herceptin, mirate a specifiche caratteristiche del
tumore, e nuovi test in grado di fare una stima delle probabilita` di ricaduta
nei tumori estrogeno-dipendenti, consentendo alle donne con un rischio basso di
evitare la chemioterapia. “Non e` curare il cancro”, dice Bach “ma sono passi
in avanti. E si, sono lenti”.
L’idea che possa esserci un’unica
soluzione per il cancro al seno – screening, diagnosi precoce, una cura
universale – e` allettante. Tutti noi – chi ha paura della malattia, chi ci
convive, i nostri amici, le nostre famiglie, le compagnie che si avvolgono nel
rosa – vorremmo che fosse vero. Indossare un bracciale, un nastro, partecipare
a una corsa, comprare un frullatore rosa esprime le nostre speranze e ci fa sentire
buoni, persino virtuosi, ma fare la differenza e` molto piu` complicato di
cosi`.
Sono passati 40 anni da quando l’ex first
lady Betty Ford ha parlato pubblicamente del suo cancro al seno, infrangendo lo
stigma sulla malattia. Sono passati 30 anni dalla fondazione di Komen. 20 anni
dall’introduzione del nastro rosa. Eppure tutta questa consapevolezza, ha
finito col rendere le donne meno
consapevoli della realta` dei fatti, ha oscurato i limiti dello screening,
confuso rischio con malattia, compromesso le decisioni sulla nostra salute,
celebrato “sopravvissute” che non avrebbero mai necessitato di alcun
trattamento. Tutto questo a spese di coloro le cui vite sono piu` a rischio."
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