mercoledì 22 maggio 2013

La nostra guerra buonista al cancro al seno - seconda parte




Eccovi la seconda e ultima parte degli stralci piu` importanti dell'articolo di Peggy Orenstein, uscito sul New York Times Magazine lo scorso 25 aprile. La prima parte la trovate qui. Il casino successo con Angelina Jolie rende il saggio della Orenstein ancora piu` interessante. Ne riparleremo.


"L’estate scorsa, nove mesi dopo la mammografia di routine, mentre stavo per mettermi a letto chiacchierando con mio marito, le mie dita hanno sfiorato qualcosa di piccolo e duro sotto la cicatrice sul seno sinistro. In un attimo, ho attraversato di nuovo la membrana sottile che separa i sani dai malati. Quest’ultimo tumore era piccolo e circoscritto come il primo. Difficilmente si era diffuso. Naturalemente, pero`, andava rimosso. Dato che la quadrantectomia dev’essere seguita da radioterapia e non si puo` irradiare la stessa parte due volte, l’unica opzione era la mastectomia. Mi e` stato prescritto anche il tamoxifene, per ridurre le probabilita` di metstasi dal 20 al 12%. Dovrei sopravvivere, ma nessuno puo` garantirlo. Non mi sara` possibile sapere se sono guarita finche` non moriro` di qualcos’altro, possibilmente tra molti anni, mentre dormo stringendo la mano di mio marito, dopo una bella cena con i nipotini.

L’istinto questa volta mi diceva di togliere anche l’altro seno. Non volevo che potesse succedere di nuovo. Il mio oncologo non era d’accordo, pero`. Il tamoxifene avrebbe ridotto il rischio di recidiva rendendolo pari a quello di una donna sana. Una donna sana si farebbe tagliare il seno? Potevo optare per la chirurgia preventiva, aggiunse, ma si trattava di una questione psicologica non medica.
Ho fatto le mie valutazioni man mano che la data dell’intervento si avvicinava. Il rischio medio, d’altra parte, non e` zero. Potevo conviverci? Una parte di me desiderava eliminare qualsiasi rischio. Ho una figlia di nove anni. Farei qualsiasi cosa – ho bisogno di fare qualsiasi cosa – pur di non morire. Eppure se il problema e` la morte, la minaccia piu` grossa non viene dall’altro seno ma dalla possibilita` che, nonostante i trattamenti e la prognosi favorevole, il cancro che gia` ho vada in metastasi. La mastectomia preventiva non avrebbe potuto far nulla contro cio`, ne` avrebbe potuto azzerare del tutto la probabilita` di una nuova malattia, perche` una parte del tessuto rimane sempre. Potevo vivere cosi`? Una parte di me voleva liberarsi di qualsiasi minaccia. Ho una figlia di nove anni e farei qualsiasi cosa – ho bisogno di fare qualsiasi cosa – pur di evitare di morire. Tuttavia, se il problema era la morte, il pericolo piu` grosso non era l’altro seno ma che, nonostante le terapie e la prognosi favorevole, il cancro fosse gia` andato in metastasi. La mastectomia preventiva non avrebbe potuto evitarlo, ne` avrebbe potuto eliminare del tutto la possibilita` di un nuovo tumore, perche` parte del tessuto rimane sempre.

Cosa significa “qualsiasi cosa”, comunque? Ci sono giorni in cui non metto la protezione solare, non faccio attivita` fisica come dovrei, non ho smesso di mangiare il Gouda stagionato nonostante i risultati delle mie ultime analisi per il colesterolo, non assumo abbastanza calcio e, si, casa mia e` a sei isolati da una faglia. Vivere con una certa percentuale di avere il cancro al seno e` davvero cosi` diverso? Decisi di seguire il consiglio del mio medico, di fare solo cio` che era necessario.
Pensavo che il mio dilemma fosse poco comune e che derivasse dal fatto di essere stata troppe volte dal lato sbagliato delle statistiche. Sembra tuttavia che centinaia di donne ora considerino la doppia mastectomia a seguito di carcinomi poco aggressivi. Secondo Todd Tuttle, capo della divisione di chirurgia oncologica e primo autore di uno studio sulla mastectomia profilattica pubblicato su The Journal of Clinical Oncology, si e` verificato un aumento del 188% tra il 1998e il 2005 tra le donne a cui e` stato diagnosticato un carcinoma in situ in un seno – un fattore di rischio per il cancro – che hanno deciso di farseli asportare entrambi. Tra le donne con carcinoma duttale allo stadio iniziale (come il mio), l’aumento e` stato del 150%. Molte di queste donne non hanno una predisposizione genetica al cancro. Tuttle avanzava l’ipotesi che stessero decidendo sulla base non di quanto consigliato loro dai medici ma su una percezione esagerata del rischio di avere il cancro all’altro seno. Le donne intervistate per un altro studio credevano che il rischio fosse del 30% nell’arco di dieci anni, mentre era solo del 5.

Non e` stato molto tempo fa che le donne si sono battute per conservare il seno dopo il cancro, facendo pressioni sui chirurghi perche` sostituissero le mastectomie radicali con l’egualmente efficace nodulectomia accompagnata da radioterapia. Perche` le cose sono cambiate? Ci penavo mentre curiosavo tra le “Storie di Speranza” sul sito dell’American Cancer Society. Mi sono imbattuta in una bella donna con una T-shirt rosa addosso, sorridente mentre stringe in mano un cupcake glassato decorato con una candelina rosa. Parlando in prima persona, diceva che aveva cominciato i controlli verso i 35 anni perche` affetta da mastopatia fibrocistica. A 41 anni, le era stato diagnosticato un carcinoma in situ trattato con nodulectomia e radioterapia. “Mi sento fortunata ad averlo preso in tempo”, diceva, pur aggiungendo di essere uscita emotivamente devastata da quell’esperienza. Ha continuato i controlli e si e` sottoposta a interventi multipli per rimuovere cisti benigne. Quando ha saputo di avere il cancro al seno di nuovo, era al suo quinto intervento Ha deciso di rimuovere il seno completamente, una decisione che considerava logica e di preventiva.

Mi sono ritrovata a pensare a una spiegazione alternativa per il caso di questa donna. La mastopatia fibrocistica non lascia presagire il cancro, sebbene distinguere tra un nodulo benigno e uno maligno possa essere difficile, facendo aumentare potenzialmente il numero di biopsie inutili. Avendo iniziato i controlli a 30 anni questa donna e` stata esposta a un eccesso di radiazioni, una delle poche cause note del cancro al seno. Il suo carcinoma in situ, condizione diagnosticabile quasi esclusivamente attraverso la mammografia, difficilmente avrebbe messo a rischio la sua vita, eppure l’ha trasformata in una sopravvissuta al cancro al seno, con tanto di operazione e settimane di radioterapia. Alla seconda diagnosi, era cosi` sconvolta che si e` fatta amputare entrambi i seni per ristabilire il controllo della situazione. Questa donna va salutata come una sopravvissuta o additata come un ammonimento? La consapevolezza le ha conferito potere decisionale o ne ha fatto una vittima? La paura del cancro e` legittima: il modo in cui gestiamo quella paura, mi sono resa conto – come rispondiamo ad essa, che emozioni proviamo – puo` essere manipolato, impacchettato, commercializzato e venduto, talvolta proprio da chi sostiene di stare dalla nostra parte. Da chi puo` influenzare qualsiasi cosa, dalla nostra percezione dello screening, alla nostra valutazione del rischio personale alla scelta dei trattamenti. “Si puo` attribuire l’aumento delle mastectomie a una migliore conoscenza della genetica o al miglioramento delle tecniche di ricostruzione” dice Tuttle, “cose che ci sono anche in Europa dove pero` non c’e` questa mania della mastectomia. C’e` cosi` tanta consapevolezza negli Stati Uniti che l’ho ribattezzata sovra-consapevolezza sul cancro al seno. E` dovunque. I camion della spazzatura sono rosa. Le donne sono terrorizzate”

“Circa 40.000 donne e 400 uomini muoiono ogni anno di cancro al seno” dice Lynn Erdman, vice presidente della sezione di salute pubblica di Komen. “Finche` questi numeri non spariranno, non ci sara` abbastanza rosa”.

Ero seduta nella sala conferenze del quartier generale di Susan G. Komen, vicino al centro commerciale Galleria a Dallas. Komen non e` la piu` grande associazione benefica per il cancro, titolo che spetta all’American Cancer Society, ma e` comunque la piu` grande organizzazione a occuparsi di cancro al seno. E sebbene l’anno scorso l’immagina di Komen sia stata appannata dal tentativo di tagliare i finanziamenti per lo screening a Planned Parenthood, il suo nome rimane virtualmente sinonimo di lotta al cancro al seno. Con le sue dozzine di corse per “cura” e circa 200 sponsor, e` l’associazione che forse piu` di tutte e` riuscita a fare di una malattia un marchio. Il suo marketing martellante ha reso il nastro rosa uno dei logo dei nostri tempi. Il nastro simboleggia sia la paura della malattia che la speranza di poterla sconfiggere. E` un simbolo di coraggio per chi e` malato e un’espressione di solidarieta` da parte di coloro a cui la questione sta a cuore. E` una promessa di progresso continuo verso una cura attraverso donazioni, corse, volontariato. Fa comunita`. Offre alle compagnie un modo apparentemente infallibile to mostrare buona volonta` verso le donne, anche sebbene, attraverso una pratica definita dai critici “pinkwashing”, i loro prodotti siano legati alla malattia o ad altre minacce alla salute pubblica. Far indossare alle squadre di calcio scarpe colorate di rosa, ad esempio, puo` controbilanciare la pressione che la Lega Calcio Americana deve gestire per le accuse di stupro e violenza domestica rivolte ad alcuni giocatori. Le donazioni della Chevron agli affiliati di Komen in California aiuta a nascondere quello che il locale Dipartimento di Relazioni Industriali ha definito “consapevole violazioni” della sicurezza che hanno portato al grosso incendio di una raffineria in un quartiere della Bay Area l’anno scorso.

Piu` di qualsiasi altra cosa, tuttavia, il nastro ci ricorda che tutte noi siamo a rischio e che la migliore protezione e` lo screening annuale. Nonostante il marchio di fabbrica di Komen sia “per la cura”, solo il 16% dei 472 milioni di dollari raccolti nel 2011, l’ultimo anno per cui sono disponibili i bilanci, e` stato devoluto alla ricerca. 75 milioni di dollari sono abbastanza per credere che dare credito alla rivendicazione che Komen ha avuto un ruolo in tutte le principali scoperte sul cancro al seno negli ultimi 29 anni. Questa cifra, tuttavia, e` niente in confronto ai 231 milioni che la fondazione spende per educazione e screening.

Sebbene adesso Komen renda conto del dibattito sullo screening sul suo sito web, la fondazione e` stata piu` volte accusata di esagerare i benefici della mammografia e sminuirne i rischi. Steve Woloshin, un collega di Welch al Darmouth Institute for Health Policy and Clinical Practice e co-autore di un articolo pubblicato nella sezione Not so Stories sul British Medical Journal, ha puntato il dito contro una recente cartellone pubblicitario di Komen dove si legge “Le probabilita` di sopravvivenza a cinque anni al cancro al seno con la diagnosi precoce sono del 98%. E senza? Scendono al 23%”. Woloshin definisce quest’affermazione volutamente ingannevole. Le cifre sono corrette ma la sopravvivenza a cinque anni e` un parametro fuorviante distorto dallo stesso screening. La mammografia individua molti tumori che non necessitano di alcun trattamento e che sono, per definizione, guaribili. Nel frattempo, alcune donne colpite dalla malattia in maniera letale sembrano vivere piu` a lungo perche` il tumore e` stato diagnosticato prima, ma in realta`, ad allungarsi e` solo la consapevolezza di essere malate. “Immaginiamo un gruppo di 100 donne che riceve una diagnosi di cancro al seno perche` ha sentito un nodulo al seno a 67 e a 70 sono tutte morte. In questo caso la sopravvivenza a 5 anni e` dello 0%. Ora immaginiamo che lo stesso gruppo di donne venissero sottoposte a controlli e ricevessero la diagnosi a 64 anni, con 3 anni di anticipo, ma che i trattamenti non funzionassero e morissero comunque a 70 anni. La sopravvivenza a 5 anni in questo secondo caso e` del 100%, anche se nessuna di loro e` vissuta un secondo di piu` delle altre.

Quando a gennaio ho chiesto a Chandini Portteus, vicepresidente della sezione di ricerca, valutazione e programmi scientifici di Komen, perche` la fondazione continuasse a usare quelle statistiche, la sua risposta e` stata molto evasiva: “Komen non aveva intenzione di fornire dati fuorvianti. Sappiamo che la mammografia non e` perfetta, ma sappiamo anche che e` cio` che abbiamo a disposizione e che e` importante per diagnosticare il cancro al seno” (I dati sono stati successivamente rimossi dal sito).

Nel suo libro Pink Ribbons Inc., la sociologa Gayle Sulik, fondatrice del Breat Cancer Consortium, ha riconosciuto a Komen il merito di aver reso la malattia conosciuta, incoraggiando le donne a parlarne e trasformandole da “vittime” in “sopravvissute”. Komen, dice Sulik, ha distribuito piu` di un milioni di dollari alla ricerca e progetti di supporto. Allo stesso tempo, la funzione della cultura del nastro rosa – e di Komen in particolare – e` diventata piu` l’auto-perpetuazione della malattia piuttosto che il suo eradicamento: mantenere alta la visibilita` della malattia e continuare a raccogliere fondi. “Bisogna guardare gli obiettivi di ogni programma” – dice la Sulik – “Se l’obiettivo e` eradicare il cancro al seno, quanto siamo vicini? Non siamo vicini affatto. Se l’obiettivo e` la consapevolezza, che cosa ci fa essere consapevoli? Che il cancro al seno esiste? Che e` importante? Il concetto di “consapevolezza” e` stato esteso al punto da diventare un mero sinonimo di “visibilita`”. Ed e` qui che il movimento contro il cancro al seno ha sbagliato. E` qui che ha perso l’occasione di andare avanti”.

Prima del nastro rosa la consapevolezza fine a se stessa non era l’obiettivo predefinito delle campagne riguardanti la salute. Oggi e` difficile trovare una malattia senza un logo, un ornamento da indossare, una lista di prodotti abbinati tra loro. Le malattie cardiache hanno il loro vestito rosso, il cancro al testicolo il suo braccialetto giallo. Durante “Movember”, una parola composta da “moustache” [baffi] e “November” [novembre], gli uomini sono incitati a farsi crescere la barba perche` si sparga la voce e la consapevolezza sul cancro alla prostata (un’altra malattia per la quale la diagnosi precoce ha portato al sovratrattamento) e sul cancro ai testicoli. “Queste campagne sono accomunate dalla stessa superficialita` per quanto riguarda la responsivita` richiesta al pubblico”, dice Samantha King, professore associato di chinesiologia e salute all’Universita` dell’Ontario e autrice di Pink Ribbons Inc.. Sono completamente slegate da qualsiasi critica alle politiche sanitarie e alla ricerca biomedica. Rinforzano un modello monotematico e competitivo di raccolta dei fondi. E dissimulano le malattie: veniamo resi “consapevoli” di una malattia e allo stesso tempo completamente separati dalla realta` difficile e spesso devastante di chi ne e` affetto”.

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Invece di assicurare che “le mammografie salvano vite”, le associazioni potrebbero utilizzare slogan piu` realistici per le loro campagne. Secondo il ricercatore Gilbert Welch, “La mammografia ha sia benefici che costi – per questo e` una decisione personale”. Era questo il messaggio della task force, messa da parte per questioni politiche nel 2009: l’evidenza scientifica indica che ha senso fare la mammografia ogni anno tra i 50 e i 74 anni d’eta`. Chi non rientra in questo gruppo e vuole fare la mammografia, deve essere informata del rovescio della medaglia.

Le donne sono oggi tutte consapevoli del cancro al seno. Qual e` il prossimo passo allora? Per eradicare la malattia (o almeno ridurne l’incidenza e la devastazione) c’e` probabilmente bisogno non tanto di raccogliere fondi quanto di distriburgli meglio. Quando ho chiesto a scienziati e sostenitori, come spendere diversamente almeno parte dei fondi raccolti con le campagne di consapevolezza, le loro risposte sono state ampie e variegate. Molti hanno sottolineato quanto magri siano i fondi destinati al lavoro sulla prevenzione. A febbraio, per esempio, un comitato di sostenitori, scienziati e funzionari di governo ha chiesto di aumentare la quantita` di risorse destinate a studiare le cause ambientali del cancro al seno. Hanno dato al termine un significato molto ampio in modo da includere comportamenti come il consumo di alcool, esposizione a sostanze nocive, radiazioni, disparita` socio-economiche.

Altri scienziati guardano con entusiasmo alla possibilita` di combattere o prevenire la malattia modificando il “microambiente” del seno – il tessuto che circonda il tumore che puo` stimolarne o bloccarne la crescita. Susan Love ha fatto il paragone con il modo in cui vivere in un quartiere bene o malfamato possa influenzare il destino di un bambino potenzialmente delinquente. “Potrebbe essere”, mi ha detto, “che cambiando il “quartiere”, quello che sta intorno, che sia il sistema immunitario o il tessuto, possiamo controllare o uccidere le cellule cancerose. Fare la terapia sostitutiva durante la menopausa potrebbe essere stato l’equivalente biologico del permettere agli spacciatori di colonizzare gli angoli delle strade. D’altra parte, un vaccino, l’obiettivo attuale di alcuni scienziati e sostenitori, potrebbe essere come impiegare piu` poliziotti di quartiere.
Quasi tutti concordano nel sostenere che c’e` ancora molto lavoro da fare da entrambe le parti dello spettro diagnostico: distinguere quali lesioni in situ si trasformeranno in carcinomi infiltranti cosi` come comprendere il meccanismo delle metastasi. Secondo l’anaisi della rivista Fortune, solo il 5% dei finanziamente del National Cancer Institute a partire dal 1972 sono andati a ricerche sulle metastasi. Dei 2 miliardi e 200 milioni di dollari raccolti negli ultimi sei anni, Komen ha destinato solo 79 milioni a questo tipo di ricerche – parecchio denaro, non c’e` dubbio, ma un mero 3.6% di quanto raccolto in quel periodo.

“Molta gente pensa che il lavoro sulle metastasi sia uno spreco di tempo”, dice Danny Welch, capo del dipartimento di biologia del Cancer Center dell’Universita` del Kansas, “perche` bisogna prima di tutto prevenire il cancro. Il problema e` che non sappiamo ancora cosa lo causa. Preferirei anch’io prevenirlo del tutto, ma detto in soldoni, un atteggiamento del genere equivale a buttare sotto un treno un mucchio di persone”.

108 donne americane muoiono di cancro al seno ogni giorno. Alcune possono vivere anche un decennio o piu` con le metastasi, ma la sopravvivenza media e` 26 mesi. Un pomeriggio ho parlato con Ann Silberman, autrice del blog “Breast Cancer? But Doctor...I Hate Pink”. Silberman ha cominciato a scrivere nel 2009, all’eta` di 51 anni, dopo aver trovato un nodulo nel seno che e` risultato poi essere cancro al secondo stadio, che le dava – cosi` le venne detto – il 70% di probabilita` di sopravvivenza. All’epoca era segretaria in una scuola a Sacramento, felicemente sposata e madre di due ragazzi, di 12 e 22 anni. Nei due anni successivi, e` stata operata, ha fatto sei cicli di chemioterapia, e` stata trattata con un terzetto di farmaci incluso l’Herceptin e pensava di aver risolto.

Quattro mesi dopo, un mal di schiena e un rigonfiamento addominale la spinsero ad andare dal medico. Il cancro si era diffuso al fegato. Perche` le terapie non hanno funzionato? Nessuno lo sa. “A questo punto sai che morirai e che sara` nei prossimi cinque anni”, mi ha detto. Il suo obiettivo e` vedere suo figlio piu` piccolo finire le superiori a giugno.

Non e` facile rapportarsi a qualcuno con le metastasi, soprattutto se si e` avuto il cancro. Quello che e` successo alla Silberman e` la mia piu` grande paura; la notte dopo la nostra chiacchierata, sono stata perseguitata dall’incubo che il cancro tornasse. Probabilmente per questo motivo, le pazienti metastatiche sono assenti dalle campagne del nastro rosa e raramente vengono invitate a parlare durante eventi di raccolta fondi o alle corse. Lo scorso ottobre, per la prima volta, una donna con cancro al quarto stadio figurava nella pubblicita` di Komen, ma le sue parole enfatizzavano cautamente il lato positivo: “Sebbene oggi, il tumore sia arrivato a ossa, fegato e polmoni, Bridget continua ancora a sperare” (Bridget e` morta all’inizio di questo mese).

“Tutto quelle parole sulla consapevolezza non ci riguardano”, dice Silberman. “Riguardano la sopravvivenza, noi non sopravviveremo. Staremo male. Perderemo parte del nostro fegato. Verremo attaccate all’ossigeno. Moriremo. Non e` bello e non da speranza. La gente vuole credere nella “cura” e vuole credere che la cura sia la diagnosi precoce. Ma sai cosa? Non e` vero”.
Il progresso scientifico e` irregolare, imprevedibile. “Brancoliamo tutti nel buio”, dice Peter B. Bach, direttore del Centro per le Politiche Sanitarie del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center. “Quello che posso dire e` che qualcosa dara` i suoi frutti”. Ci sono alcune terapie, come il tamoxifene o l’Herceptin, mirate a specifiche caratteristiche del tumore, e nuovi test in grado di fare una stima delle probabilita` di ricaduta nei tumori estrogeno-dipendenti, consentendo alle donne con un rischio basso di evitare la chemioterapia. “Non e` curare il cancro”, dice Bach “ma sono passi in avanti. E si, sono lenti”.

L’idea che possa esserci un’unica soluzione per il cancro al seno – screening, diagnosi precoce, una cura universale – e` allettante. Tutti noi – chi ha paura della malattia, chi ci convive, i nostri amici, le nostre famiglie, le compagnie che si avvolgono nel rosa – vorremmo che fosse vero. Indossare un bracciale, un nastro, partecipare a una corsa, comprare un frullatore rosa esprime le nostre speranze e ci fa sentire buoni, persino virtuosi, ma fare la differenza e` molto piu` complicato di cosi`.

Sono passati 40 anni da quando l’ex first lady Betty Ford ha parlato pubblicamente del suo cancro al seno, infrangendo lo stigma sulla malattia. Sono passati 30 anni dalla fondazione di Komen. 20 anni dall’introduzione del nastro rosa. Eppure tutta questa consapevolezza, ha finito col rendere le donne meno consapevoli della realta` dei fatti, ha oscurato i limiti dello screening, confuso rischio con malattia, compromesso le decisioni sulla nostra salute, celebrato “sopravvissute” che non avrebbero mai necessitato di alcun trattamento. Tutto questo a spese di coloro le cui vite sono piu` a rischio."



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