martedì 29 novembre 2016

Le Amazzoni Furiose su Radio Radicale

Ieri sera su Radio Radicale, nel corso della rubrica Fai Notizia, e` stato trasmesso un servizio sul marketing del cancro al seno curato da Stefania Prandi.
E` possibile riascoltare il servizio qui. Dura dieci minuti, ma e` denso di informazioni utili che molt* di quell* che seguono questo blog conoscono gia`, ma che e` sempre utile ricordare o tenere a portata di click in caso si voglia introdurre qualcun* al tema.
Oltre a Grazia De Michele, sono stati intervistati Daniela Fregosi, nota sul web come Afrodite K [qui], Giuseppe Serravezza, oncologo e direttore scientifico della Lega Italia per la Lotta ai Tumori (LILT) di Lecce, Marianna Burlando, psicologa e presidente della LILT di Lecce [qui] e Chiara Bodini, ricercatrice presso il Centro Salute Internazionale dell'Universita` di Bologna [qui].

Desideriamo ringraziare Stefania Prandi [qui], fotografa e giornalista scrupolosa e attenta alle problematiche che riguardano le donne che affronta con un coraggio che chiunque faccia il suo mestiere dovrebbe avere. 

giovedì 24 novembre 2016

La violenza di genere del cancro al seno


Matrioska di AltNovesette


Se non mi fosse piombato addosso all'alba dei 30 anni, il cancro al seno non avrebbe attirato la mia attenzione. La notizia della sua esistenza mi era giunta, come un'eco lontana, attraverso i racconti di amiche di mia madre - in famiglia altri casi non ne abbiamo - o tramite le pubblicita` delle campagne di cosiddetta prevenzione. Quando l'ex ragazza di un amico e` morta pressappoco alla stessa eta` in cui mi sono poi ammalata anch'io, ho pensato che si trattasse di una tragedia isolata dovuta a mera sfortuna.
Ho sentito i "l'ha preso in tempo" e i "si e` trascurata e c'ha rimesso le penne" cosi` come i "nelle giovani e` questione di geni", ma non ho ascoltato. Ho visto i nastrini rosa e mi sono sembrati poco autentici, ma non ho guardato.
Poi, gli eventi crudelissimi di un giorno di novembre di sei anni fa mi hanno costretta ad aprire bene occhi ed orecchie. Mai come in questo caso avrei voluto poterlo evitare.

Ci sono dei giorni in cui mi sento arrabbiata, apparentemente senza un perche`. Poi mi ricordo. Ricordo le violenze subite in questi anni.
La violenza di un linfonodo ingrossato che si insinua nella tua vita.
La violenza di mani estranee che ti toccano ovunque e di sonde che ti scrutano sotto la pelle.
La violenza della paura quando l'infermiera ti guarda, la fronte madida e il sorriso falso, e ti dice "si accomodi".
La violenza del seno schiacciato in una pressa che chiamano mammografo.
La violenza del bisturi che il seno te lo taglia.
La violenza della chemioterapia che ti avvelena per farti tornare in vita, ma la vita in realta` e` un'altra e fa abbastanza schifo.
La violenza della menopausa a 30 anni.
La violenza della fatigue causata da farmaci di cui devi imbottirti per dieci lunghissimi anni.
La violenza dei cercatori di metastasi che ti rovistano nelle budella e quando ti dicono "puo` andare" lo sanno che tanto tra sei mesi si ricomincia.
La violenza di dover rispondere "non posso" anziche` "non voglio" alla domanda "quanti figli hai?".
La violenza dei lavori persi perche` hai detto che hai il cancro.
La violenza di vedere morire donne come te, nel paese in cui sei nata, in quello in cui vivi e in quello in cui speri di andare.
La violenza delle bugie di chi dice che dal cancro al seno si guarisce.
La violenza di chi ha trasformato la tua malattia in un business per vendere prodotti su cui ha appiccicato un nastrino rosa.
La violenza di vedere seni scolpiti e sani per pubblicizzare i prodotti su cui e` stato appiccicato un nastrino rosa.
La violenza delle sostanze tossiche contenute nei prodotti su cui e` stato appiccicato un nastrino rosa.
La violenza di chi dice che il problema sono gli stili di vita.
La violenza di chi sa che ogni anno in Italia circa 48 mila donne si ammalano di cancro al seno e 12 mila ne muoiono ma, pur avendone il potere, non fa niente per cambiare le cose.

Il principale fattore di rischio per lo sviluppo del cancro al seno e` il genere. Le terapie tossiche con cui viene trattato, i problemi economici che porta nelle vite di chi ne e` colpita e l'indifferenza di chi si sottrae al dovere di porre in essere misure atte a ridurne l'incidenza sono una delle molteplici forme di violenza sulle donne. Che la manifestazione del 26 novembre a Roma sia anche contro tutto questo. #NonUnaDiMeno!

domenica 13 novembre 2016

Barbara Brenner raccontata della sua compagna Susie Lampert




Pubblichiamo alcuni estratti dell'intervento di Susie Lampert alla presentazione della raccolta di scritti della sua compagna Barbara Brenner, svoltasi presso l'Universita` di Bologna il 7 novembre scorso. Ringraziamo ancora una volta il Centro di Salute Internazionale, il Gruppo Prometeo e l'associazione Armonie per aver organizzato e ospitato l'evento. Il libro, So Much To Be Done [Cosi` tanto da fare], puo` essere acquistato qui

Barbara Brenner era – o almeno cosi` sembrava a me  - molto coraggiosa e quel coraggio le consentiva di sbattere in faccia la verita` ai potenti. Combatteva contro coloro che contribuivano a causare il cancro al seno, coloro che lo usavano per fare soldi senza produrre alcun beneficio per le pazienti, coloro che dedicavano la loro carriera a studi scientifici che avrebbero dovuto identificare modi di prevenire o curare il cancro al seno senza pero` riuscirvi e coloro che trattano le pazienti con paternalismo, come fossero bambine e non adulte intelligenti nel pieno diritto di partecipare alle decisioni riguardanti i trattamenti. Quel coraggio le ha consentito di alzarsi di fronte a decine di migliaia di ricercatori e oncologi riuniti al San Antonio Breast Cancer Symposium per metterli di fronte a quello che uno dei relatori aveva presentato come il risultato del suo lavoro riferendosi ai pazienti che non avevano superato le terapie. “No” aveva detto. “Non sono i pazienti che non superano le terapie. Sono le terapie che non superano i pazienti”.

[...]

Nella sua introduzione a Cosi tanto da fare, Rachel Morello-Frosch scrive di quello che definisce l’impegno di Breast Cancer Action di “far avanzare le 3 R degli studi scientifici sul cancro al seno – rilevanza, rigore e accessibilita` (reach in inglese).
A queste 3 R potremmo aggiungerne una quarta: rivoluzione. Barbara e Breast Cancer Action hanno spostato l’attivismo sul cancro al seno dalla consapevolezza alla mobilitazione. Nel 2002, avendo notato che i nastri rosa venivano attaccati su molti prodotti in “supporto alla lotta contro il cancro al seno”, lanciarono la campagna Think Before You Pink.

Nel 2008, in un articolo intitolato L’attivismo come processo organico: Think Before You Pink ieri e oggi, riguardante l’evoluzione della campagna Think Before You Pink e alcuni suoi successi verificatisi grazie alle piccole azioni di persone comuni che collettivamente costituivano un insieme molto vasto, Barbara scriveva:

"Nel lontano 2000, una mia cara amica mi raccontava di una conversazione avuta con qualcuno che aveva partecipato a una passeggiata per il cancro al seno di 3 giorni suggerendo che Breast Cancer Action (BCA) dovesse cercare di capire dove andassero a finire tutti quei soldi raccolti durante queste iniziative. Cio` che e` seguito e` quello che definisco il processo organico dell’attivismo, in cui una cosa porta ad un’altra e un tipo diverso di movimento prende forma.
In risposta alla sollecitazione della mia amica, cominciammo a scavare e scrissi un articolo per The Source [La Fonte, la newsletter di BCA, ndr.] dal titolo “Tieni la mente in esercizio”. Quell’articolo divento` un editoriale pubblicato sul San Francisco Chronicle che venne ripreso da altri giornali e BCA comincio` a ricevere richieste da persone che vivevano nelle zone piu` disparate del paese e chiedevano se avessimo informazioni sui vari prodotti venduti per raccogliere fondi per il cancro al seno, quanto denaro venisse donato e dove andasse a finire. Man mano che le domande crescevano e il marketing sociale legato al cancro al seno si diffondeva (il marketing sociale e` la pratica di aumentare le vendite di un prodotto associandolo a una causa di rilevanza sociale), diventava sempre piu` chiaro che la questione delle raccolte fondi andava ben oltre le passeggiate. E cosi` BCA ha ampliato il suo raggio d’azione. Il risultato, nel 2002, e` stato il lancio della campagna Think Before You Pink.
Il primo anno ci siamo occupate di marketing sociale in generale e abbiamo messo un annuncio sull’edizione cartacea del New York Times. Il risultato e` stata molta attenzione da parte dell’opinione pubblica verso il marketing sociale sul cancro al seno. Molti principali indiziati (aziende che donavano pochi spiccioli delle loro vendite o traevano il pubblico in inganno circa il loro impegno), tra cui Eureka Co (l’azienda produttrice di aspirapolveri) e American Express, hanno smesso di fare questo tipo di marketing.
Nel 2003 abbiamo spostato l’attenzione per la prima volta verso le aziende doppiogiochiste che sostengono di tenere alle donne impegnandosi nella lotta al cancro al seno, ma i cui prodotti sono legati alla malattia. Ispirate dai nostri alleati del movimento ambientalista, abbiamo battezzato queste aziende pinkwashers. Abbiamo pubblicato un altro annuncio pubblicitario sul NY Times incentrato sulle aziende cosmetiche –Avon, Revlon, Estee Lauder – che raccolgono soldi per la ricerca sul cancro al seno ma usano sostanze nei loro prodotti che sono collegate al cancro al seno o altre malattie.
Nel 2004 Think Before You Pink e` diventata una campagna online incentrata sulla mancanza di coordinamento nella raccolta fondi per il cancro al seno. Attraverso un breve video, abbiamo esortato le persone a contattare le principali agenzie per il finanziamento e la ricerca chiedendo che queste ultime collaborassero tra loro per mettere insieme i pezzi che compongono il puzzle del cancro al seno. Molte persone hanno scritto a questi enti e le risposte ricevute non sono state affatto rassicuranti dal momento che ciascuna ha dichiarato di lavorare con altre ma, ogni volta, in modi molto diversi. 
[...]
La campagna esiste e riscuote successo perche` persone come voi l’hanno voluta, l’hanno resa una realta` e continuano a mobilitarsi per affrontare i problemi che solleva. Se lavoriamo insieme e` possibile cambiare il comportamento delle aziende, soprattutto di quelle che fanno pinkwashing. E quando queste aziende cambiano, altre ci fanno caso e cambiano anche loro. E tutti ne traggono beneficio, grazie al vostro impegno."

E` chiaro a questo punto perche` il libro si intitola Cosi` tanto da fare: questa era la realta` del mondo di Barbara, la realta` del suo lavoro per cambiare il discorso pubblico e il corso dell’epidemia di cancro al seno, la realta` della sua vita di attivista.
Nel novembre del 2010 a Barbara e` stata diagnosticata la SLA. A quel punto ha lasciato BCA e ai primi del 2011 ha aperto un blog dal titolo Frecciate salutari. Come ho detto prima, Barbara conosceva il potere delle parole. Mentre faceva i conti con la sua morte inevitabile, ha trovato il tempo per pensare a come frasi comuni e modi di dire mascherano realta` importanti su cui pochi di noi si soffermano a riflettere. Il primo post del suo blog si intitola “Non chiedetemi come sto”. Ve lo leggo perche` mostra l’ampliamento della sua analisi di attivista. Aveva gia` scritto di quella che considerava l’importanza di essere visibili a seguito di una diagnosi di cancro o durante le terapie e in questo post espande le sue considerazioni all’invisibilita` della sua nuova malattia. E scrive:

"Anni fa, mentre ero a pranzo con un’amica in terapia per una forma molto avanzata di cancro al seno, le feci la domanda che molti di noi fanno quando sono con qualcuno che non hanno visto per un po` 'Come stai?' La mia amica molto gentilmente mi disse che quella era una domanda a cui, data la sua situazione, non poteva rispondere. Sarebbe stato meglio chiederle 'Come stai oggi?' o 'Come sta andando la giornata?'
Se ci pensate, nessuno di noi puo` davvero sapere “come sta” in un dato giorno. Possiamo sapere come ci sentiamo, ma non cosa sta succedendo nei nostri corpi. Per esempio, le persone a cui viene diagnosticato un cancro al seno spesso si sentono in salute finche` i medici non dicono loro che quel nodulo trovato nella loro ultima mammografia non e` benigno.
E a volte non e` possibile rendersi conto che una persona e` malata solo guardandola. Prendiamo me, per esempio. Ho grosso modo l’aspetto che ho sempre avuto. I miei capelli non stanno cadendo, ho un buon colorito, e un sorriso gradevole. Ma ho una malatta – la SLA o sclerosi laterale amiotrofica – una malattia neurologica degenerativa per la quale non c’e` cura.
Quando le persone mi chiedono come sto, vado in bestia. Non ho voglia di discutere con tutti quelli che vedo cosa significa vivere ogni giorno con una malattia che so che mi togliera` sempre piu` funzionalita` e alla fine mi uccidera`. Non sappiamo quanto rapidamente questo accadra`, ma non per questo e` piu` facile parlarne.
[...]
Sono troppo occupata a vivere per sprecare tempo a rispondere a domande sui miei pensieri sulla morte. E, ad ogni modo, non voglio parlare di questo con tutte le persone che incontro. Quindi, non chiedetemi come sto".

 Avrete capito a questo punto che tipo di attivista fosse Barbara e i diversi livelli su cui operava come attivista. L’ultimo pezzo che voglio leggervi e` un estratto dal post Attivismo per la salute – Non per i cuori pavidi del settembre 2011, circa un anno dopo la diagnosi di SLA. Questo pezzo offre alcuni spunti su cosa significa e cosa ci vuole per vivere da attivista e su cosa significasse vivere e operare per Barbara Brenner:

"Nel mio lessico, un attivista e` qualcuno che ha ben chiari i suoi obiettivi e adotta strategie per raggiungerli. Un attivista non si puo` comprare – nessuna somma di danaro o privilegi cambieranno il suo impegno verso il perseguimento dei obiettivi. A prescindere dalla malattia di cui si occupa, un attivista per la salute e` una persona i cui obiettivi, per quanto possano beneficiare lei personalmente una volta raggiunti, mirano ad avere effetti su altre persone che l’attivista non conosce nemmeno. Questi obiettivi vanno al di la` dell’interesse personale: si tratta di cambiare il sistema in modo che i tanti che oggi soffrono ne traggano beneficio. Molto spesso questi obiettivi sono piu` grandi di quanto si possa fare in una vita intera e gli attivisti sanno che il loro impegno e` reso possibile dal lavoro svolto precedentemente da altri. E sanno pure che se fanno bene il loro lavoro gli altri che verranno dopo lo porteranno avanti. Le attiviste per la salute devono essere dure. Dovendo prendere posizione pubblicamente sulla base dei loro principi ci sara` sempre qualcuno che non sara` d’accordo e lo dira`, a volte in maniera non troppo piacevole. Se un’attivista cede perche` le sue posizioni sono state criticate non e` un’attivista. Ho imparato questa lezione a mie spese molte volte nel mio lavoro sul cancro al seno. Quando ho criticato le raccolte fondi con i prodotti nastro rosa per aumentare le vendite, molti si sono arrabbiati chiedendosi come fosse possibile criticare le raccolte fondi per il cancro al seno. Quando ho messo in discussione l’uso dell’Avastin per il cancro al seno, sono stata accusata di condannare le donne a morire anzitempo. E quando ho sostenuto le linee guida per lo screening mammografico che avrebbero escluso le donne tra i 40 e i 49 anni, mi e` stato detto che avrei avuto le mani sporche di sangue. Le attiviste vogliono rendere il mondo un posto migliore. Sono impegnate, dure e non hanno paura di dire quello che pensano. Molte studiano i dettagli delle questioni di cui si occupano in modo da poter ingaggiare conversazioni intelligenti con chi ha potere decisionale. Essere un attivista non e` per i cuori pavidi. Ma le gratificazioni spesso sono grandi. Si conosce tanta bella gente, si impara tanto e a volte, solo a volte, si fa la differenza nel mondo." 

Nel pezzo che ho letto all’inizio, Barbara scriveva che una volta ricevuta una diagnosi di cancro al seno, non si puo` essere sicuri di essere guariti finche` non si muore di qualcos’altro. Barbara ha vissuto abbastanza a lungo da morire di qualcos’altro. E` morta di SLA nel maggio del 2013. Le avevo promesso di far scrivere nel suo necrologio che era morta dopo una lunga battaglia contro l’industria del cancro al seno. E cosi` e` stato – sul New York Times, il Washington Post, il Los Angeles Times, Time Magazine e molti altri giornali. 

Barbara di solito concludeva i suoi interventi con questa citazione: 

"Nei miei sogni, l’angelo alzava le spalle e diceva ‘Se sbagliamo questa volta, sara` per mancanza di immaginazione’. E poi mise delicatamente il mondo nel palmo della mia mano". 

Credo che sarebbe emozionata per la vostra partecipazione. E che spererebbe che voi prendiate il mondo nel palmo delle vostre mani e siate motivati a portare avanti il suo lavoro, sbattendo la verita` in faccia ai potenti e lavorando per cambiare le cose.

Grazie.

sabato 5 novembre 2016

Appuntamento a Bologna con Barbara Brenner il 7 novembre



Ci siamo. Susie ed io siamo quasi pronte a partire. Susie, lo ricorderete, e` la compagna di Barbara Brenner il cui libro So Much To Be Done (Cosi` tanto da fare) e` stato pubblicato da University of Minnesota Press a maggio di quest'anno.
Barbara ha guidato per 15 anni l'organizzazione statunitense Breast Cancer Action ed e` stata la piu` grande attivista nella storia del movimento politico contro il cancro al seno [qui e qui].
Lunedi` 7 novembre alle 18.30 presso l'aula 1 di Piazza Scaravilli 2 a Bologna, insieme al Centro di Salute Internazionale, al Gruppo Prometeo e all'Associazione Armonie, parleremo di lei, del suo libro e di cosa possiamo fare per mettere in pratica i suoi insegnamenti in Italia. Non mancate. 

sabato 29 ottobre 2016

Da Israele arriva il pinkwaRshing




La realta` supera la fantasia. E l'orrore. L'aereonautica israeliana ha tirato fuori dal cilindro degli sfavillanti e mortiferi caccia colorati di rosa in nome della prevenzione del cancro al seno. Perche` 'bombardare' le cellule cancerose non basta. Quella contro il cancro al seno e` una guerra a 360 gradi e puo` rivelarsi molto utile se serve a nascondere i crimini di chi massacra civili innocenti che, se non muiono sotto le bombe lanciate da aerei rosa - ah che dolce morte! - muoiono di cancro. A causa del blocco imposto da Israele ed Egitto a Gaza mancano i farmaci, inclusi quelli per le patologie oncologiche [qui]. Non solo, ma spesso ai pazienti e` negato il permesso di farsi curare presso ospedali fuori dalla Striscia. E` il caso di Nadia Abu Nahla al Bakri, direttrice del Women's Affair Technical Committee di Gaza e affetta da cancro al seno, a cui e` stata rifiutata la possibilita` di recarsi in ospedali fuori da Gaza per effettuare i controlli di cui necessita [qui].
Inoltre, e` di alcuni giorni fa l'appello delle donne malate di cancro al seno che denuncia la mancanza di farmaci e attrezzature mediche adeguate a Gaza e si rivolge al governo palestinese e alle autorita` internazionali perche` venga garantito il loro diritto a spostarsi per motivi di salute [qui].
Il pinkwaRshing israeliano copre tutto questo e molto altro. Sta a noi alzare la voce, piu` forte che possiamo, e smascherarne l'ipocrisia. 

mercoledì 12 ottobre 2016

Speranza, politica e vivere con il cancro al seno

In occasione della giornata del cancro al seno metastatico, pubblichiamo la traduzione del primo capitolo di So Much To Be Done, la raccolta di scritti di Barbara Brenner, edita da University of Minnesota Press, che sara` presentata a Bologna il 7 novembre prossimo [qui e qui]. Lo scritto e` stato pubblicato nell'agosto del 1995 all'interno della newsletter di Breast Cancer Action, di cui Barbara Brenner era allora presidente.

Trascorro molte ore la settimana a comunicare attraverso la rete con persone che si occupano di cancro al seno. In un recente scambio su internet con delle colleghe ho chiesto come dovremmo chiamarci noi che siamo state trattate per il cancro al seno. La discussione ha sollevato questioni importanti circa la relazione tra speranza e politica.

Non mi definisco una "sopravvissuta" al cancro al seno, ne` mi riferisco ad altre persone che hanno ricevuto la stessa diagnosi come a delle "sopravvissute". Il termine suggerisce - a torto - che il cancro al seno e` curabile. E` vero, grazie al cielo, che molte di noi vivranno a lungo abbastanza da morire di qualche altra cosa. Ma nessuna malata di cancro al seno potra` mai dire onestamente che il cancro non ritornera`. 

Per me, il termine "sopravvissuta" rimanda all'idea che non sono morta di cancro al seno perche` sono in qualche modo migliore o diversa dalle centinaia di migliaia di donne che sono morte di questa malattia. 

Non ho trovato una parola sola che esprima quello che voglio dire quando parlo della mia esperienza con il cancro al seno: che ha cambiato la mia vita per sempre e in molti modi, che il cancro mi uccida o no. La frase "vivere con il cancro al seno" e` un'opzione. Dice agli altri che e` possibile vivere con questa malattia, riconoscendo implicitamente che non tutte sono cosi` fortunate. Inoltre, comunica che la diagnosi e` un evento che cambia la vita. Tuttavia implica (come anche la frase "ho il cancro al seno") che la persona in questione e` in terapia o ne ha bisogno. [...]

Quando ho mandato queste idee al mio gruppo online sul cancro al seno, a una persona non e` piaciuta la frase "vivere con il cancro al seno" perche` riecheggiava il programma dell'American Cancer Society "Vivere con il cancro al seno" che, secondo lei, contiene paura e false speranze. Questa donna voleva concentrare l'attenzione sul bisogno di prevenire il cancro al seno. Un'altra del gruppo si chiedeva, in risposta, se dovessimo sacrificare la speranza pur di esercitare la pressione politica necessaria affinche` si trovino cure e misure preventive. 

Secondo l'American College Dictionary, speranza vuol dire "attesa di qualcosa di desiderato" o "fiducia in un evento futuro". Allo stato attuale, riporre aspettative o essere fiduciose che il cancro al seno, una volta trattato, non si ripresentera` e` una falsa speranza. Non c'e` cura per il cancro al seno. Dobbiamo far credere alle persone che una cura esista perche` altrimenti si sentiranno indifese di fronte alla diagnosi? Oppure dobbiamo far capire alle persone che non c'e` una cura se vogliamo aspettarci che l'epidemia di cancro al seno riceva l'attenzione di cui necessita?

Queste domande mettono in luce il punto in cui il personale e il politico - che di solito sono la stessa cosa - si separano. Le persone malate e i loro cari hanno bisogno di speranza. Hanno bisogno di credere che loro e i loro cari possono guarire perche` la speranza e` essenziale per l'animo umano. E in realta`, a volte, finite le terapie, per ragioni che nessuno puo` identificare, il cancro non ritornera`. La stessa terapia, pero`, in un'altra donna o in migliaia di alte donne, non garantisce la guarigione. Ed e` questo il fatto che deve muovere l'azione politica e che rende il lavoro di Breast Cancer Action cosi` importante. 

Finche` le persone continueranno a fingere che esiste una cura per il cancro al seno, le donne continueranno a morire per la negligenza che caratterizza questa malattia. Piu` di um milione di donne - tutte quelle a cui e` stata diagnosticata - vivono giorno dopo giorno con la possibilita` di una ripresa di malattia. Bisogna far capire questa realta` se  vogliamo esercitare una pressione reale sulle istituzioni governative, mediche e scientifiche perche` trovino un modo efficace per porre fine a questa epidemia. 

La polio era considerata un'emergenza sanitaria quando 50.000 persone all'anno si ammalavano e 3.300 ne morivano. Cosa ci vorra` perche` il cancro al seno riceva lo stesso tipo di attenzione? Ci vorra` che le donne che si sono ammalate e quelle a rischio (ossia tutte le donne) si facciano sentire circa il bisogno di cure e prevenzione. Quindi, visto che il personale e` politico, per quelli a cui interessa saperlo e per i molti a cui non importa, sono una donna che vive con il cancro al seno.

Barbara Brenner
Presidente

domenica 2 ottobre 2016

Barbara Brenner, la cattiva ragazza del cancro al seno




Ogni volta che qualche persona che conosco muore di cancro al seno scrivo un piccolo necrologio per ricordarla e ricordare che di cancro al seno si muore. Quando se n'e` andata lei non ci sono riuscita [qui]. E non certo perche` a portarsela via non e` stato il cancro al seno, ma la sclerosi laterale amiotrofica - quella SLA di cui si parla troppo poco - ma soprattutto perche` mai sarei riuscita a trovare le parole per descriverla.
Lei e` Barbara Brenner, la piu` grande attivista della storia del movimento politico contro il cancro al seno. Nata a Baltimora nel 1951, Barbara ricordava di aver partecipato a soli dieci anni, accompagnata dalla madre, ad una manifestazione culminata con un comizio di Martin Luther King. "Ero una bambina piuttosto saccente", aveva ricordato divertita in un'intervista.
Grazie ad una borsa di studio, nel 1969 era andata a studiare allo Smith College, dove aveva partecipato alle proteste studentesche contro la guerra del Vietnam. Successivamente si era iscritta alla facolta` di legge presso la Georgetown University, che aveva pero` lasciato una volta resasi conto che legge e giustizia non sempre si equivalgono. Trasferitasi a Princenton, aveva conosciuto Susie Lampert, destinata a diventare il grande amore della sua vita e la sua compagna. Quello di Princeton era un ambiente estremamente maschilista e omofobo, che Barbara mal sopportava. Appena Susie ebbe concluso i suoi studi, la coppia si trasferi` in California, prima a Los Angeles e poi a San Francisco. Li`, a Berkeley, Barbara si laureo` in legge e comincio` a lavorare come avvocata esperta in diritti delle persone LGBT.



Nel 1993, il cancro al seno. Barbara subisce una quadrantectomia, ma nel 1996, la malattia si ripresenta. Questa volta, il seno colpito viene rimosso interamente e Barbara sceglie di non fare la ricostruzione ne` di indossare una protesi per nascondere gli effetti della mastectomia. Nel frattempo, nel 1994, quando non ha ancora completato la chemioterapia a seguito della prima diagnosi, Barbara scrive una lettera sui finanziamenti per la ricerca sul cancro al seno al San Francisco Chronicle. L'allora presidente di Breast Cancer Action (BCAction), Nancy Evans, la contatta e le chiede di partecipare ad almeno una riunione del gruppo. Barbara e` titubante, ma alla fine si lascia convincere. L'anno successivo prendera` le redini dell'organizzazione, allora semisconosciuta, che sotto la sua guida sarebbe cresciuta fino ad assumere il ruolo informale di "garante" del movimento contro il cancro al seno.
Barbara definisce le attiviste di BCAction "le cattive ragazze del cancro al seno". Non ha peli sulla lingua, non teme il confronto alla pari con medici e ricercatori a cui pone domande che nessuno aveva mai osato fare. Il suo motto e` "fare le brave non serve a niente".
Nel 1998, BCAction decide ufficialmente di rifiutare qualsiasi donazione dall'industria farmaceutica e da aziende che producono sostanze anche solo sospettate di essere collegate alla malattia. Nel 2002, la campagna Think Before You Pink smaschera per la prima volta il colossale imbroglio che si nasconde dietro la vendita delle mercanzie piu` varie contrassegnate dal nastro rosa, imposto, attraverso un'operazione di marketing della casa di cosmetici Estee Lauder, come simbolo della malattia [qui]. Un neologismo - pinkwashing - coniato per l'occasione da BCAction serve a indicare la vendita di prodotti contenenti ingredienti tossici con la scusa di raccogliere fondi da devolvere alla ricerca [qui].
Dalle colonne della newsletter di BCAction, Barbara offre al grande pubblico un'analisi dettagliata ma accessibile di tutto quanto riguarda il cancro al seno, svelando le falle nell'organizzazione della ricerca e l'assenza di una strategia coordinata e coerente a livello globale per garantire terapie piu` efficaci e con meno effetti collaterali. Il suo interesse preponderante non e` certo la popolarita`, ma il il diritto alla salute e all'informazione per tutte le donne, malate e non, anche a costo di metterle al corrente di verita` poco piacevoli. L'attivismo, scriveva nel 2011, "serve rendere il mondo un posto migliore per chi lo abita [e] non e` per le persone poco coraggiose".


Anche quando le e` stata diagnosticata la SLA, nel 2010, Barbara non ha rinunciato al suo ruolo. Costretta a lasciare la direzione di BCAction un anno prima del previsto, apre un blog attraverso cui continuare ad dire la sua. Persa la voce e la mobilita`, utilizza una sedia a rotelle elettrica per spostarsi e un software per la sintesi vocale, in grado di trasformare in voce umana le parole che lei scrive con il computer.
Barbara muore il 10 maggio del 2013, annunciando lei stessa la sua fine prossima tramite il suo blog. A distanza di tre anni, una raccolta dei suoi scritti e` stata pubblicata dalla casa editrice University of Minnesota Press con il il titolo So Much To Be Done (C'e` tanto da fare) [qui]. Una lettura imprescindibile non solo per chi e` stato colpito dal cancro al seno o dalla SLA, ma per chiunque voglia fare qualcosa di concreto per cambiare le cose.
Il 7 novembre a Bologna presso l'aula 1 di Piazza Scaravilli 2 alle 18.30 ci sara` una presentazione del libro di Barbara Brenner, organizzata dal Centro di Salute Internazionale dell'Universita` di Bologna, dal Gruppo Prometeo, e dall'associazione Armonie a cui partecipera` anche Susie Lampert [qui]. Non perdete quest'occasione, unica in Italia, per conoscere e celebrare una donna e un'attivista straordinaria, il cui spirito indomabile non si spegnera` finche` continueremo a mettere in pratica quanto ci ha insegnato.

domenica 18 settembre 2016

Ottobre puzza di pesticidi

Ottobre si avvicina. Il circo rosa ripartira` come ogni anno. A mo` di preparazione spirituale, facciamo un tuffo nel passato, ai tempi in cui il mese della prevenzione del tumore al seno non aveva ancora colore.
Era il 1985 quando negli Stati Uniti venne lanciata la National Breast Cancer Awareness Week, trasformatasi successivamente in National Breast Cancer Awareness Month. A lanciarla, il colosso chimico farmaceutico britannico Imperial Chemical Industries, che deteneva all'epoca il brevetto del tamoxifene - venduto col nome di Nolvadex - e il cui mercato piu` vasto era quello nord-americano. L'obiettivo era promuovere la mammografia come strumento di diagnosi precoce. Un'iniziativa benefica? Difficile rispondere di si, considerando che la Imperial Chemical Industries, oltre a produrre il tamoxifene, produceva anche pesticidi. Un fattore determinante nello scegliere che genere di messaggio diffondere sulla malattia e come "prevenirla".
Negli anni 90, la compagnia decide di staccare il suo settore farmaceutico e agrochimico e formare un'azienda nuova, la Zeneca. Quest'ultima, alla fine del decennio, e` stata accorpata ad una casa farmaceutica svedese, la Astra AB, dando vita ad AstraZeneca. Nel 2000, dalla fusione del ramo agrochimico di AstraZeneca e quello di Norvartis e` nata Syngenta, la multinazionale con sede in Svizzera che produce semi e pesticidi.
AstraZeneca continua ad essere tra i principali sponsor del National Breast Cancer Awareness Month. I suoi interessi nel settore non si sono di certo esauriti, nonostante il brevetto sul tamoxifene sia ormai scaduto. Una nuova generazione di farmaci, i cosidetti inibitori dell'aromatasi, sono una nuova gallina dalle uova d'oro per la compagnia. L'aromatasi e` un enzima chiave nella trasformazione del testosterone in estrogeni che, a loro volta, sono coinvolti nello sviluppo del cancro al seno. Gli inibitori dell'aromatasi non fanno altro che bloccare l'attivita` dell'enzima. AstraZeneca e Novartis hanno commercializzato due tra i farmaci appartenenti a questa categoria tra i piu` usati: Arimidex e Femara.
Allo stesso tempo, Syngenta e` uno dei principali produttori al mondo di atrazina, un erbicida molto utilizzato in agricoltura ed un interferente endocrino. Studi in laboratorio hanno dimostrato come l'atrazina provochi la femminilizzazione dei maschi delle rane che sviluppano ovaie nei testicoli. Altri studi condotti su linee cellulari umane hanno messo in evidenza come nelle cellule cancerose, se esposte all'atrazina, l'attivita` dell'aromatasi aumenti cosi` come la produzione di estrogeni. Insomma, come dice, Tyrone Hayes, professore di biologia integrata a Berkeley, "la compagnia che ti da l'atrazina, che mette in moto l'aromatasi, arriva e ti vende un inibitore dell'aromatasi e ti dice che funziona mille volte meglio di qualsiasi altra terapia per il cancro al seno a disposizione" [qui].
L'atrazina e` stata vietata in Italia negli anni '80. Secondo un rapporto dell'Istituto Superiore per la Ricerca Ambientale (ISPRA) pubblicato nel 2013, la sua presenza nelle acque di superficie e sotterranee e` ancora rilevante [qui]. E` probabile insomma che i nostri nipoti saranno ancora esposti ad essa, sebbene in quantita` minori rispetto al passato, ma in combinazione con una gamma sempre piu` vasta di interferenti endocrini e sostanze tossiche. Perche` quest'anno allora, invece di fare la mammografia, non ci mettiamo tutte a protestare sul serio perche` le ingiustizie che abbiamo subito non si abbattano anche sulle generazioni a venire?!?

mercoledì 7 settembre 2016

Metodo Hamer. Perche`?

La morte di due donne - una malata di leucemia, l'altra di cancro al seno - ha riacceso negli ultimi giorni il dibattito sulle terapie per il cancro. Rifiutate le terapie della medicina cosiddetta convenzionale, Alessandra Tosi, 34 anni, e Eleonora Bottaro, 18, avevano scelto il "metodo Hamer". Cerchiamo di fare il punto della situazione.
Hamer, fondatore della Nuova Medicina Germanica, sostiene che le malattie, incluso il cancro, sono causate da conflitti emotivi non risolti. Le terapie si basano dunque sulla risoluzione di questi ultimi. Se ti ammali di cancro, il problema non e` l'esposizione involontaria e prolungata a sostanze cancerogene ma la tua incapacita` di risolvere presunti conflitti interiori. Hamer e coloro che praticano il suo metodo sono insomma dei ciarlatani che operano senza la minima base scientifica, proponendo un approccio individualizzante e colpevolizzante.
Il problema e` cercare di capire perche` tante persone si affidano a cotanti apprendisti stregoni rifiutando chemio, radioterapia e simili quando si scoprono malate di cancro. Tacciarle di ignoranza e credere cosi` di aver spiegato il fenomeno e` non solo miope ma sintomatico dell'ampio distacco tra la medicina ufficiale e i soggetti a cui dovrebbe rivolgersi. Prendiamo i casi di Alessandra ed Eleonora. Vista l'eta`, sarebbe opportuno chiedersi perche` si siano ammalate rispettivamente di cancro al seno e di leucemia. Avete sentito qualcuno dei luminari espressisi in merito porsi questa domanda o offrire una risposta? Alessandra ed Eleonora pero` devono esserselo chiesto, come se lo chiede chiunque si ammali di cancro soprattutto da giovane e probabilmente hanno ritenuto di affidarsi a chi una risposta - per quanto sbagliata e fuori da ogni logica - gliel'ha offerta. Inoltre, la chemioterapia non "cura" il cancro. Abbassa le probabilita` di recidiva e metastasi e il prezzo da pagare e` alto. Nonostante gli sforzi per renderla piu` tollerabile, si tratta di una terapia con grossi effetti collaterali - inclusa l'insorgenza a distanza di anni di nuovi tumori - ed estremamente invalidante la cui efficacia, occorre ribadirlo, non e` garantita. Questo i pazienti lo sanno bene: chi oggi non ha almeno un familiare o un amico morto nonostante la chemio? Eppure si sentono dire troppo spesso che qualche ciclo di chemio li rimettera` a nuovo senz'altro. A questo punto i conti non tornano. La discrepanza tra la propria esperienza personale e le informazioni semplificanti offerte dai medici e amplificate dalla fanfara mediatica che caratterizza tutto cio` che riguarda il cancro genera diffidenza.
E` necessario dunque non solo offrire un'informazione adeguata sulle cause della malattia e sui grossi limiti delle terapie attualmente a disposizione, ma adoperarsi per la riduzione dell'incidenza e la messa a punto di terapie piu` efficaci e meno debilitanti. Finche` questo non avverra`, gli Hamer continueranno a prosperare e coloro che vi si affidano a morire. 

giovedì 28 luglio 2016

Il cancro fa schifo

Puo` capitare, a distanza di 6 anni dalla diagnosi, di distrarsi dal cancro. Non che il pensiero non si affacci nella mente almeno una volta al giorno. Diventa pero` piu` fugace. Se bisogna prendere decisioni importanti riguardo al proseguimento delle terapie si cerca di scacciarlo. Addirittura e` possibile leggere notizie riguardanti la malattia facendo finta che la cosa non ci riguardi.
Arriva, pero`, il momento in cui la realta` ti si schianta in faccia. E ti annienta. Nel corpo, prima di tutto. E` il giorno della siringa blocca-ovaie. La faccio da 5 e mezzo ogni 3 lunedi`. Prima di andare a dormire, il marito mescola la polverina e il solvente, aspira il liquido e lo inietta. La mattina dopo sembra non sia successo nulla. Verso il pomeriggio, le forze cominciano a venire meno, la pressione scende, il cuore pompa a fatica. Due giorni dopo, sono occhiaie e gambe di ricotta. I pensieri stanno insieme a fatica, senza riuscire a fissarsi da nessuna parte. E ti sale la rabbia. Per il cancro a 30 anni. Per i 5 anni di terapia in cui ti sei gonfiata come un pallone, in cui hanno combattuto ogni singolo giorno la battaglia impossibile da vincere con la fatigue. Per quelli che seguiranno nella stessa situazione. Tutto cio` che hai da dire sono parolacce. Parole volgari. Come il cancro. Come l'indifferenza verso la vita rovinata di tante, troppe donne. 

venerdì 8 luglio 2016

Non e` solo il cancro a farmi paura

Vado pazza per l'hummus, la crema di ceci che ho scoperto da quando abito in Inghilterra. L'hummus e` tipico dei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Si puo` mangiare spalmato sul pane o per accompagnare le pietanze.
Quando, nel 2010, mi trasferii temporaneamente in Italia per la chemioterapia decisi di prepararmi l'hummus da sola, visto che nei supermercati non riuscivo a trovarlo. La ricetta e` semplice. Unico problema: dove procurarsi uno degli ingredienti principali, il tahin - una salsa a base di semi di sesamo - a Foggia? 
Fu cosi` che, una mattina, io e mia madre entrammo in un negozio di alimentari vicino alla stazione. La zona e` diventata da alcuni anni una sorta di quartiere-ghetto: l'apertura di negozi gestiti da migranti non e` stata accolta particolarmente bene dai foggiani che si sentono minacciati dalla presenza dei nuovi arrivati. Anche mia madre mi guardo` per un attimo con un certo sgomento quando le dissi che solo in uno di quei negozi avremmo potuto comprare il tahin, ma decise di seguirmi ugualmente. 
Parcheggiammo la macchina non lontano da quella che una volta era la mia vecchia scuola elementare ed entrammo in piccolo alimentari. 
"Buongiorno, sto cercando il tahin"
La signora alla cassa  non crede ai suoi occhi. Era probabilmente la prima volta che due donne foggiane entravano nel suo negozio per comprare i suoi prodotti. Pensando di non aver capito, mi chiese di ripetere cosa stessi cercando.
"Il tahin, la salsa per fare l'hummus".
Alle nostre spalle, suo figlio aveva gia` preso il barattolo e  se la rideva per la mia pronuncia. Mia madre, scioltasi, chiese la ricetta dell'hummus direttamente alla signora, la quale si prodigo` in particolari consigliandoci di provare a preparare una specialita` dell'Egitto, suo paese d'origine: l'hummus di fave.
Sono passati ormai diversi anni da quell'episodio. Stamattina mi sono capitate sotto il naso due notizie, riportate dai giornali locali, che me l'hanno riportato alla memoria. Qualche giorno fa, proprio in quella zona i vigili urbani, muniti di spray urticante, hanno effettuato controlli ed arresti suscitando il plauso dell'assessore Claudio Amorese, esponente de La Destra, che ha rivolto ai tutori dell'ordine il suo "personale ringraziamento, soprattutto a coloro che sono impegnati nel non facile lavoro di ridare decoro e dignità ad alcune arterie stradali a ridosso di viale XXIV Maggio, dove è massiccia la presenza di cittadini stranieri." [qui]. Ma non e` finita: oltre che dallo spray urticante, il quartiere e` infestato dalle squadracce fasciste di Forza Nuova e Azione Studentesca che, col pretesto di un episodio di violenza sessuale, hanno iniziato a perlustrare la zona offrendosi di "scortare" a casa i cittadini purche`, ovviamente, siano di pura razza foggiana. Addirittura e` possibile prenotare il servizio via mail o su Facebook [qui].
Mi tornano in mente la signora egiziana e suo figlio, il tahin comprato da loro e l'hummus che costituiva uno dei miei pasti principali durante la chemio. E penso anche ad Emmanuel Chidi Nnamdi, morto per mano fascista come la parlamentare Jo Cox, qui in Inghilterra, alla vigilia del referendum sull'appartenenza del paese all'Unione Europea. Penso al negozio gestito da rumeni dato alle fiamme a Norwich la notte scorsa [qui]. Penso che ho paura del fascismo come ho paura del cancro perche` entrambi spezzano vite.

domenica 22 maggio 2016

Jody, Francesca e tutti noi

"Che vuol dire #BCSM?"
"Breast Cancer Social Media"

Non ricordo a chi ho fatto questa domanda poco prima della nascita di questo blog, nel 2012. Sono passati ormai quattro anni da quando quell'hashtag, insieme al blog AnneMarie Ciccarella e a Breast Cancer Action, mi hanno trasformata da paziente timorosa di esprimere la propria rabbia per una diagnosi di cancro al seno a soli 30 anni in un'attivista. Quell'hashtag lo dobbiamo ad Alicia Staley and Jody Schoger, co-fondatrici e co-moderatrici, insieme a Deanna Attai, chirurga senologa presso la David Geffen School of Medicine della University of California Los Angeles [qui]. Grazie a quell'hashtag e alla tweetchat ad esso collegata, che si tiene dal 2011 ogni lunedi` ad orari antidiluviani, purtroppo, per chi vive in Europa, sono diventata una cancro-attivista.
Jody Schoger se ne` andata mercoledi` 20 maggio, a 61 anni. Il cancro al seno era tornato nel 2013 a 15 anni di distanza dalla prima diagnosi. Gayle Sulik, direttrice del Breast Cancer Consortium, che la conosceva personalmente racconta che Jody le aveva detto [qui]:

"Sono arrabbiatissima, la scienza ha pasticciato con [il cancro al seno] per tutta la mia vita e non siamo nemmeno vicini [a una soluzione]. E` passata un'altra generazione, e di cancro al seno si muore ancora. Ancora oggi".

C'ho messo tutto il fine settimana per buttare giu` queste poche righe, quando oggi pomeriggio e` giunta, come una pugnalata alle spalle, la notizia della morte per cancro, a soli 40 anni, di una giovane giornalista del Manifesto di cui non mi perdevo un articolo. Francesca Pilla viveva a Napoli, una delle capitali del cancro oggi in Italia. Non so se si trattasse di cancro al seno, ma non importa. Non si puo` morire in questo modo cosi` giovani. E` un'ingiustizia enorme. Ci avvelenano fino a farci ammalare, poi ci dicono di stare tranquille, che tutto si risolve. E invece non e` vero, per chi vede la propria vita falcidiata dalle terapie e i loro postumi e per chi muore. Tutto questo non riguarda solo me, Jody e Francesca. Tutto questo riguarda tutti. E non so proprio quanto ci metterete ancora a svegliarvi e a chiedere ai nostri governanti di tutelare la nostra salute attraverso prevenzione primaria e ricerca che salvi vite umane e non serva solo a guadagnare titoloni sui giornali.

mercoledì 11 maggio 2016

Contro la chiusura della guardia medica

Avevo sentito che il peggio stava per arrivare alla terza chemio. E, inevitabilmente, alla quarta fu impossibile evitarlo. Vomito, no. Quello mi e` stato risparmiato. Ma febbre alta e difficolta` respiratorie. Non potevo parlare e camminare insieme. I primi due giorni la febbre si teneva bassa. Attestatasi poi sui 40, non voleva saperne di scendere. Avevamo fatto i conti senza l'oste io e mamma a pensare che a Pasqua saresti stata a tavola a mangiare la pasta al forno con tutta la famiglia. Dell'ultima chemio, per quanto ultima, pure bisogna smaltire la tossicita`.
E` festa. Chiamo l'ospedale, a Milano. L'oncologo di turno dice i miei globuli bianchi sono troppo bassi. Per questo ho la febbre. Tutte le persone che abitano con me devono indossare una mascherina quando sono nella mia stanza. Gli esterni devono starsene a casa loro. E poi ci vuole un antibiotico per proteggermi. E chi me lo scrive? "Chiamiamo la guardia medica", suggerisce mamma.
Si presentano in due, un uomo e una donna, la sera di sabato santo. Sono giovani. Mi chiedono cosa mi sia successo, cosi` giovane. Mi visitano. Mi dicono di stare tranquilla. Mi prescrivono un antibiotico. Uno che non sia troppo pesante per lo stomaco che non vede roba solida da giorni. "E chiama pure se hai bisogno".
Il governo Renzi ha deciso di chiudere la guardia medica notturna. Chi sta male, dopo la chiusura degli studi dei medici generici aperti dalle 8 alla mezzanotte (questo vuol dire che non saremo piu` seguiti da un medico di nostra scelta come adesso?), puo` andare in pronto soccorso. Lo stesso dove mia madre, un mese fa, con un braccio spezzato, e` stata in fila per 3 ore per poi cambiare ospedale per disperazione. Anche chi sta in chemio deve farsi il giro dei pronto soccorso per una febbre da neutropenia o per un vomito che necessita di un'iniezione di Plasil? Con la faccia verde e le gambe molli deve trascinarsi fino in ospedale per ricevere assistenza, esponendo il proprio sistema immunitario messo a tappeto dalle terapie alla sfida persa in partenza con gli agenti patogeni con cui si viene per forza di cose a contatto in ospedale? Ma cosa hanno Renzi e il Ministro Lorenzin in testa? Fanno le campagne di sensibilizzazione che sembrano pubblicita` di lingerie e poi chiudono la guardia medica? Ci fanno ammalare e poi nemmeno lasciano che si faccia qualcosa, nemmeno per guarirci, per aiutarci? Il nostro sistema sanitario nazionale e` tra i migliori d'Europa. Non lasciamo che lo smantellino sotto i nostri occhi. 

martedì 3 maggio 2016

Quattro semplici domande

E` primavera inoltrata. Inizia la stagione delle corse. Quelle per la "cura". Ad esempio, quelle di Komen Italia. Si comincia con Roma, dove tra gli sponsor figurano Exxon Mobil ed Eni [qui]. Si, avete capito bene, due compagnie petrolifere sponsorizzano un evento a scopo benefico il cui scopo e` quello di raccogliere fondi da destinare ad una non meglio precisata "lotta ai tumori del seno".
Quest'anno in preparazione alla stagione delle corse per il cancro...ops, scusate, per la "cura", diverse scuole sono state invitate ad inviare a Komen delle foto sul tema della "prevenzione". Quale? Quella primaria volta a ridurre l'esposizione involontaria ai cancerogeni, tra cui i tantissimi materiali ricavati proprio dal petrolio? Assolutamente no! 
Prima di partecipare a una corsa o evento benefico o se la scuola dei vostri figli ha partecipato all'iniziativa di Komen o a quella di qualsiasi altra organizzazione simile , ricordatevi di fare 4 semplici domande come propone Breast Cancer Action [qui]:

1. Quanta parte del denaro raccolto sara` effettivamente devoluto a progetti riguardanti il cancro al seno? 
Le corse per la cura comportano dei costi molto elevati che gli organizzatori devono sostenere. Assicuratevi che i vostri soldi non finiscano col finanziare l'evento stesso.

2. Quali progetti riguardanti il cancro al seno saranno finanziati?
Il messaggio degli organizzatori e` che il denaro raccolto servira` a salvare vite umane dal cancro al seno. In molti casi, tuttavia, i soldi vengono spesi in campagne di "prevenzione" (ossia di screening per la diagnosi precoce) la cui efficacia e` stata messa in dubbio da numerosi studi scientifici.

3. Gli sponsor della corsa sono responsabili dell'aumento del rischio di ammalarsi di cancro al seno?
Dobbiamo aggiungere altro, oltre al petrolio di Komen e agli assorbenti Lines della Fondazione Veronesi [qui]?

4. La corsa presenta un'immagine semplificata del cancro al seno che esclude una certa categoria di persone?
Secondo le organizzazioni promotrici di queste iniziative, il cancro al seno e` una malattia prevenibile attraverso lo screening mammografico e un atteggiamento combattivo e positivo. Ci piacerebbe che fosse cosi`. Anche noi abbiamo il cancro al seno (non ci finanziano Eni ed Exxon Mobil e Lines, pero`). La realta` purtroppo e` ben diversa. Circa il 30% delle donne che sviluppano il cancro al seno, sviluppa metastasi e muore. L'impatto sulla vita di queste persone, delle loro famiglie e dei loro amici e` devastante. Anche per chi non muore, una diagnosi di cancro al seno rappresenta l'inizio di un lungo e doloroso percorso di medicalizzazione che provoca dolore fisico e psicologico, puo` portare ad ulteriori patologie e riduce la qualita` della vita. 

Che fare allora? E` davvero necessario partecipare a una corsa per la "cura" per aiutare le nostre amiche, mamme, sorelle, zie ecc. che sono state colpite dal cancro al seno? La risposta e` no. Le alternative sono tante e spaziano dall'aiuto pratico (aiutate chi e` in chemioterapia a fare la spesa, fare una passeggiata, andare in ospedale) a donazioni alle associazioni che si occupano di assistenza ai malati terminali, che svolgono un'opera meritoria sopperendo alle carenze del servizio sanitario pubblico. E, soprattutto, chiedete a chi ci governa di fermare il cancro dove comincia. Nei pozzi di petrolio, ad esempio. Dove cominciano anche le guerre. Dove non c'e` davvero niente di buono.

venerdì 8 aprile 2016

Fuggite dai medici che vi dichiarano "guarite"

A quante e` capitato di sentirsi dire dal proprio oncologo o medico di riferimento al termine delle terapie o di parte di esse: "Signora, lei e` guarita"? A molte, temo. Basta fare due chiacchiere con chi e` stato colpito dal cancro al seno o da altri tipi di tumori maligni per rendersene conto. Ecco, voglio dirlo chiaro e tondo: se vi viene detta una cosa del genere, cambiate medico.
La "guarigione" dal cancro in termini strettamente medici e` una fandonia. Non c'e` modo di sapere se nel nostro corpo ci sono ancora cellule cancerose residue ne` se queste decideranno, anche a distanza di anni, di ricominciare a proliferare. Sicuramente dopo un certo numero di anni, a seconda della sede del tumore e del sottotipo, le probabilita` che quest'ultimo caso si verifichi si riducono. Improbabile, tuttavia, non vuol dire impossibile.
Il medico che dichiara un paziente "guarito" dal cancro non sta facendo bene il suo mestiere. E` dovere di ogni professionista della salute, infatti, informare correttamente i propri pazienti che all'accesso a questo tipo di informazione hanno diritto. Informare non vuol dire semplificare o, come nel caso delle presunte "guarigioni" dal cancro addirittura mistificare, perche` non si dispone degli strumenti comunicativi adeguati per spiegare questioni anche solo un minimo piu` sottili del solito o perche` si decide cosa il paziente debba sapere o meno. In attesa che certi medici si decidano a colmare queste lacune, se doveste sentir pronunciare la parola "guarigione" in riferimento al vostro caso datevela a gambe.

giovedì 24 marzo 2016

Talco e cancro alle ovaie

E` sera. Sono appollaita sul divano. Il mal di gola si sta impossessando di me. La tisana allo zenzero preparatami dal coniuge fa schifo. Ce ne avra` messo un chilo, di zenzero. Scorro Facebook tra veglia e sonno. E` quasi ora di andare a dormire. Ancora un click e sullo schermo compare un articolo di OK Salute e Benessere, mensile pubblicato da RCS. Titolo: "Il talco aumenta il rischio di ammalarsi di tumore dell'ovaio?" [qui]. Sottotitolo, visibile anche sul post su Facebook: "Dagli studi scientifici recenti non emerge alcuna relazione tra l'uso di talco a livello inguinale o endovaginale e aumento del rischio". Non credo ai miei occhi. Altro click e mi rendo conto che si tratta di un'intervista stile vero/falso ad Anna Franzetti, responsabile dell'unita` contenuti istituzionali di missione dell'Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC).
L'articolo si apre con un breve riferimento a "una sentenza statunitense che ha condannato un'azienda produttrice di prodotti per l'igiene intima a risarcire i parenti di una donna morta di cancro all'ovaio". L'azienda e` la Johnson&Johnson che, circa un mese fa, e` stata condannata a pagare 72 milioni di dollari alla famiglia di Jackie Fox, deceduta per cancro alle ovaie nel 2015, all'eta` di 62 anni. Fox, a quanto pare, utilizzava il talco Johnson&Johnson nelle parti intime. A convincere la giuria della colpevolezza della casa produttrice sarebbe stato, secondo la stampa, un documento interno risalente al 1997 e presentato dall'avvocato della famiglia della donna in cui un consulente medico sosteneva che negare la correlazione tra utilizzo "igienico" del talco e cancro alle ovaie sarebbe come "negare l'ovvio nonostante ogni evidenza contraria" [qui].
Il caso offre ad OK Salute e Benessere lo spunto per chiedere ad Anna Franzetti se l'uso di talco aumenti il rischio di ammalarsi di cancro alle ovaie. Risposta:

"Falso. Le prove scientifiche accumulate in questi ultimi anni, che hanno impiegato campioni più grandi e metodi più rigorosi che in passato, non dimostrano alcuna relazione tra l’uso di talco e aumento del rischio. Gli studi condotti recentemente non hanno indicato, infatti, il talco tra i possibili fattori di rischio del cancro ovarico, che è una patologia già di per sé poco frequente (rappresenta meno del 3% di tutti i casi di tumore). Inoltre, dai dati raccolti. Quando emerge un piccolo aumento del rischio, si tratta di studi retrospettivi basati sui ricordi delle persone intervistate (e quindi meno attendibili rispetto agli studi sperimentali)".

Franzetti si e` persa parecchi passaggi. L'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (International Agency for Cancer Research, IARC) ha infatti classificato nel 2010 l'utilizzo del talco nella zona peritoneale come "possibile cancerogeno" (Gruppo 2B) [qui] spiegando come "molti studi-controllo sul carcinoma ovarico hanno rilevato un modesto, ma insolitamente costante, aumento del rischio, sebbene l'effetto di errori e variabili di confusione non puo` essere escluso". Paradossalmente la stessa Franzetti tira in ballo lo IARC in riferimento all'amianto ma omette - o non e` a conoscenza, si spera - del pronunciamento della stessa organizzazione sul talco.
Se le risposte lasciano a desiderare, le domande non sono da meno: "Come si e` diffusa questa credenza?" viene chiesto all'intervistata a proposito del legame tra cancro alle ovaie e utilizzo nella zona peritoneale del talco. Mi piacerebbe vedere la faccia degli esperti dello IARC se sentissero il loro pronunciamento in merito declassato a "credenza".
Dulcis in fundo, Franzetti si rivolge a "tutte le donne che in passato hanno usato il talco per l'igiene intima" rassicurandole che "non ci sono particolari ragioni per allarmarsi" e suggerendo "al limite [...] di evitare l'uso del talco a livello perineale e endovaginale". Ora, persino l'American Cancer Society (ACS), istituzione tra le piu` conservatrici, raccomanda di evitare o limitare l'utilizzo di tutti i  prodotti contenenti talco, in attesa di risultati piu` certi [qui].
La vera sorpresa, tuttavia, arriva alla fine dell'intervista quando Franzetti, per alleggerire ulteriormente il tono del suo consiglio riguardante l'utilizzo del talco in zona perineale ed endovaginale, aggiunge: "anche se la maggior parte degli studi non ha potuto dimostrare una relazione di causa-effetto tra l’eventuale utilizzo e il piccolo aumento di rischio rilevato in alcune ricerche retrospettive". Il fatto che non si sia (ancora) potuta dimostrare la relazione causa-effetto non vuol dire che quest'ultima non esista e che non sussista un aumento del rischio, per quanto piccolo ma del tutto evitabile visto che si puo` vivere benissimo senza utilizzare il talco nelle parti intime. Lei stessa infatti si lascia sfuggire che il detto aumento del rischio e` stato rilevato. Strano. Non aveva negato, all'inizio dell'intervista, che ci fosse qualunque legame tra cancro alle ovaie e talco?
La scienza non e` bianca o nera e non e` fatta di verita` assolute. Della sua complessita` e` dovere informare le persone che, a sapere come stanno le cose o anche come non si sappia esattamente come stanno, hanno diritto. E, come dimostra la battaglia di Jackie Fox e della sua famiglia, a questo diritto non hanno nessuna intenzione di rinunciare. 


mercoledì 17 febbraio 2016

Cervelli in fuga? No, cervelli sfruttati e discriminati nella civilissima Inghilterra

Cervelli in fuga. Meritrocrazia. Se ne sta parlando tanto in questi giorni in Italia. Tutto vero? Mica tanto.
Come chi segue questo blog sa, mi sono addottorata in storia nel 2012 in Inghilterra. Avrei dovuto finire nel 2010, ma il cancro ha sconvolto i miei piani. Ho potuto usufruire di una borsa di studio pagata in parte dal governo e in parte dall'Universita` che mi ospitava, la University of Reading. Nel 2016 cosa faccio? Colleziono finanziamenti e pubblicazioni su riviste prestigiose? No, cerco un lavoro pagato, anche poco, e non lo trovo. Perche`? Perche` i soldi per la ricerca per le scienze umanistiche e sociali sono finiti anche qui. Finiti. Zero. Il governo di coalizione tra conservatori e lib-dem li ha cancellati. E anche la Gran Bretagna e` diventata come l'Italia. Ho perso il conto delle domande di post-doc che ho fatto e dei colloqui finti, in cui il candidato era gia` stato designato. L'ultimo me l'hanno fatto fare via Skype a dicembre mentre ero negli Stati Uniti al San Antonio Breast Cancer Symposium. Ho deciso allora di dire basta con l'accademia che, credetemi, e` marcia strutturalmente, non solo in Italia.
E` stato cosi` che in una fredda mattina di gennaio, mentre entravo nell'ufficio postale del quartiere dove abito a Brighton, mi sono imbattuta in un annuncio: "cercasi impiegato part-time per l'ufficio postale". L'ufficio postale in questione sta in un negozio tipo il nostro tabaccaio. Qui li chiamano off licence o corner shops. Chiedo un modulo per fare la domanda, ma il proprietario mi dice che basta parlare con lui. "Come ti chiami? Quanti anni hai? Hai figli?" E ti pareva. La solita domandina. Sono talmente sfinita che rispondo con sorrisetto sarcastico che no, non ne ho. Restiamo d'accordo che avrei cominciato un tirocinio - non pagato ovviamente - al termine del quale, quando avessi imparato a usare il computer delle poste e il registratore di cassa del negozio marca Olivetti pieno di polvere che manco in uno scavo archeologico, avrei cominciato a percepire il salario minimo.
I primi due giorni filano abbastanza bene. Alla radio passano canzoni che ascoltavo durante il dottorato. David Bowie era morto da poco. Mi prende il magone, ma resito. Il terzo giorno sono tesa. E` venerdi`. La settimana successiva ho i controlli. Sono angosciata. A un certo punto sento che mi stanno per scappare le lacrime. Mi nascondo nel retrobottega. Piango. Il proprietario mi segue chiedendomi cosa non andasse. Presa in un momento di debolezza, dico la verita`. "Stai tranquilla. Tutto andra` bene. Ora va a casa e rilassati. Dopo i controlli, continuerai il tuo tirocinio. Lavorare qui ti aiutera` a distrarti".
E` giovedi`. Sono in Italia. I controlli sono andati bene. Il coniuge e` tornato a casa. Non c'e` bisogno che rimanga per la visita oncologica. Passa davanti al negozio e vede che l'annuncio e` stato esposto di nuovo. Mi avverte. Chiamo il proprietario:
"Cosa e` successo?"
"Tu non sei in condizione di lavorare, vero?"
"Chi? Io? Si, perche`?"
"Perche` hai il cancro"
"Veramente ora sono in remissione"
"Si, ma le poste non mi daranno mai il permesso di assumere una persona malata"
"Ehm, guarda che fare una cosa del genere e` contro la legge"
"No, e` che sono io che penso che una persona col cancro non sia adatta a questo lavoro"
Buongiorno, mi chiamo Grazia, ho 35 anni, un dottorato di ricerca in storia contemporanea, un cancro al seno e sono stata discriminata per la seconda volta sul lavoro per questo motivo. Che lavoro? Ricercatrice? No, impiegata tuttofare in un negozietto sudicio. Ma dove? In Italia? No, nella civilissima Inghilterra. This is England.

Leggi questa storia in inglese qui

sabato 6 febbraio 2016

Trieste scende in piazza contro la Ferriera

di Gabriella Petrucci




Di Trieste, nel resto d’Italia, non si conosce poi molto, mi sa. Molti magari fanno perfino fatica ad individuarla su una cartina geografica. Certe volte le carte la omettono proprio, la provincia di Trieste. Una piccola appendice che è meglio rimuovere, non si sa mai che butti in peritonite. Beh, ci siamo quasi. Perché Trieste, che invece è bella, adagiata sul mare, con i suoi palazzi ottocenteschi e la bora impetuosa (almeno quella, la conoscono tutti) ha un problema grave. Non si chiama Ilva ma si chiama Ferriera, un impianto siderurgico costruito nel 1896 nei pressi di Servola, un tempo villaggio e poi, col tempo, inglobato dalla città nella sua espansione moderna. Una parte di Trieste gli è cresciuta attorno, un pezzo alla volta, perché la città di spazio non ne ha tantissimo, un po’ stretta tra le alture del Carso e il mare, e l’edilizia degli anni ’60 e ’70 non andava tanto per il sottile. Le case oggi sorgono a breve distanza da questo impianto ormai vecchio, arrugginito, nero, puzzolente, che continua a produrre ghisa (probabilmente è rimasto l’unico in Italia) e a emettere, giorno dopo giorno, anno dopo anno, sostanze inquinanti, contaminanti che si accumulano nei polmoni e nel sangue non solo di chi vi lavora ma anche in quelli di chi vive nei pressi dello stabilimento. E nel resto della città.

Non mi dilungherò sul perché gli abitanti di questa città debbano essere costretti a subire un lento avvelenamento nell’indifferenza della politica, che a parole ha sempre detto di voler risolvere il problema (specie nei periodi pre-elettorali) ma poi di fatto ha sempre lasciato le cose come stavano, per motivi di probabile convenienza economica. Certo è che in vari punti della città sono posizionate centraline di rilevamento dei valori delle sostanze più pericolose, che puntualmente registrano sforamenti da brivido [qui].

La gente che abita intorno a Servola convive con una polvere nera, untuosa, che si deposita dappertutto, con il rumore, continuo, con la luce dei fuochi notturni, con i cieli quasi sempre coperti da nuvole grigiastre. La puzza arriva anche nel resto della città, quella si sente. Il particolato fine e le sostanze cancerogene, ecco, quelle non si sentono. Ma arrivano dappertutto anche loro. Quando la situazione diventa insopportabile, l’amministrazione comunale tira fuori gli attributi e …limita il traffico. Perché, come nella Palermo di Johnny Stecchino, a Trieste il problema è il TRAFFICO. 

 
Nonostante tutto ciò, ancora oggi è difficile sapere per certo quanto questo impianto stia attentando alla nostra salute e a quella dei nostri figli. Sappiamo che le sostanze emesse sono cancerogene, e sappiamo che la gente, a Servola e nel resto della città, si ammala e muore. Di patologie che, guarda caso, sono legate all’avvelenamento da benzoapirene o alla presenza di polveri sottili, ma mettere in relazione questi due fatti sembra ancora troppo difficile. Lo studio epidemiologico di recente effettuato dalla Regione non rileva niente di particolarmente anomalo, mentre lo studio realizzato su scala nazionale dal Ministero per la Salute sugli esiti sanitari nei siti inquinati e contaminati (SENTIERI) non ha tenuto granché conto della situazione di Trieste (per quel che riguarda l’incidenza dei tumori) per un problema di metodologia della raccolta dati [qui]. Evviva!

Però intorno a noi la gente continua ad ammalarsi e a morire. E mica solo di tumori ai polmoni o alla tiroide. E qui arriviamo a noi. Si sussurra, al riparo delle confortevoli mura degli ambulatori oncologici, che nella Provincia di Trieste la probabilità, per una donna, di ritrovarsi col carcinoma mammario sia di una su sette. Peccato che poi quando vai a cercare i dati ufficiali, niente da fare. Altina, come percentuale. Nella confusione mentale seguita alla scoperta di avere un cancro al seno, la cifra è rimasta ben impressa nella mia mente. Molte altre cose le ho rimosse, ma quella no . E quando recuperi, dopo tre anni, un po’ di lucidità per analizzare il problema non dico dal di fuori ma da “meno dentro”, ti fa incazzare che si parli di “necessità di condurre appropriati stili di vita” “corretta alimentazione” “volersi bene” “ fare sport” (si, ok, tutto giusto, per carità) quando chi ci avvelena è là, piantato a poca distanza da noi e continua a vomitarci il suo schifo. Ah, dimenticavo: nella vicina Monfalcone, nota per i suoi cantieri navali, e similmente appestata da anni da una centrale a carbone, i dati dello studio epidemiologico recentemente ottenuti dalla Regione parlano invece abbastanza chiaro. L’aumento dei casi di cancro della mammella tra il 1995 e il 2009 è inequivocabile nella provincia di Gorizia [qui].


Domenica 31 gennaio forse Trieste ha avuto un sussulto di rabbia, di dignità. Forse anche perché di recente, anzi di recentissimo, si è manifestata una volta di più agli occhi della gente l’indifferenza della politica alle reali necessità di chi in questa città vive e lavora. È stata infatti rilasciata, da una apposita Conferenza di Servizi cui hanno partecipato tutti gli Enti interessati, la famosa AIA, ossia l’Autorizzazione Integrata Ambientale che in sostanza, come una bondiana “licenza di uccidere” consentirà al nostro ecomostro di continuare a lavorare e a produrre sostanze nocive per i prossimi 10 (10!!!) anni. Con buona pace delle evidenze, delle segnalazioni, delle proteste. Si, perché di proteste, negli ultimi anni, ne sono state fatte tante. Ci sono associazioni, e gruppi di approfondimento sui social che monitorano attentamente quel che succede (o forse dovremmo dire quel che non succede), denunciando l’immobilismo della politica. Da più parti sono arrivate proposte: di chiusura dell’impianto, di riduzione, di riconversione. Non si è mai mossa foglia (in concreto, intendo). Certo, ci lavora della gente, lì dentro. Non sono moltissimi, 400 circa, ma tengono famiglia. Con tutti i milioni che sono stati spesi negli anni per tenere in piedi questo Leviatano, sai quanti posti di lavoro alternativi si potevano trovare o creare per non far rimanere nessuno in mezzo a una strada? Il “ricatto occupazionale” è la delicata questione tirata in ballo ogni volta che si prospetta l’eventualità della chiusura totale dell’impianto, cui segue levata di scudi, accuse di voler mettere ulteriormente in ginocchio la già disastrata economia cittadina…come se dal punto di vista etico lavoro e salute non fossero sullo stesso piano. 
Io (che personalmente sarei per tombare tutto e amen, a mai più rivederci), in un impeto di ottimismo sfrenato voglio sperare che forse ora qualcosa cambierà. Le soluzioni dovranno trovarle quelli che ci amministrano (a giugno qui da noi si vota) e che non possono avere sulla coscienza la salute compromessa di un’intera città. Ma intanto noi cittadini (e lo dico con orgoglio, noi) domenica ci siamo messi in marcia in almeno 4mila o forse più, in una protesta pacata ma ferma, decisa, come di chi proprio non ce la fa più a sopportare tutto questo. A Trieste forse un corteo così non si è mai visto, o non si vedeva da tanto, tanto tempo. Di questo, della ottima riuscita della manifestazione, dobbiamo dire grazie ad alcune persone molto testarde che lo scorso mese hanno costituito il “Comitato 5 Dicembre - Giustizia Salute Lavoro”, definito, con le stesse parole dei fondatori, “Comitato spontaneo di liberi cittadini, apolitico ed apartitico, per risolvere il grave problema di Salute Pubblica legato alla Ferriera di Servola TS” [qui].

La “passeggiata di protesta”, un vero successo, aveva lo scopo di chiedere innanzitutto il rispetto degli impegni presi dalle amministrazioni comunali (l’attuale e le precedenti) in merito alla risoluzione del problema più pressante: la riduzione delle emissioni, tanto per cominciare. (Chiaro che, nell’opinione di molti, solo la chiusura definitiva potrebbe apportare un vero, reale beneficio alla nostra salute. Diciamolo).
È stato bello, davvero. Forse sarebbe meglio dire che più che una protesta “contro” qualcosa è stata una protesta “per” qualcosa. A favore del nostro benessere, del nostro diritto a respirare e a non farci ammalare o ammazzare da ciò che respiriamo o beviamo o mangiamo; a favore dei nostri figli, e a questo proposito segnalo che c’erano tanti bambini, in corteo, con i genitori, i nonni, tutti allegri, colorati, con le mascherine sul viso (non quelle di carnevale, anche se ci siamo quasi…no, quelle antipolvere che avevamo tutti), alcuni con le faccine buffe sporcate di nero come sono neri e sporchi i vetri, i balconi, i pavimenti delle case intorno alla Ferriera, i calzini dei bimbi di Servola e i loro piedi dentro i calzini, neri e sporchi come i polmoni di chi in Ferriera lavora… tanta gente, tanti striscioni, anche parecchie bandiere, in effetti. Perché se la manifestazione si è definita da subito rigorosamente apolitica e apartitica, nel senso che nessun rappresentante di forze politiche locali ha potuto metter becco nell’organizzazione, è però anche vero che il comitato ha chiesto che i movimenti, i partiti, le associazioni che decidevano di aderire alla protesta si palesassero con un’assunzione di responsabilità. Un giorno sarà importante sapere chi ha partecipato e chi no…e tocca rilevare, ahimè, che c’erano praticamente tutti, ma la Sinistra ha brillato per la sua triste assenza. Peccato, un’occasione persa. Ce ne ricorderemo.
Nel suo percorso, lasciata la centrale piazza Oberdan, il fiumone umano si è diretto verso la Stazione Centrale, poi ha colmato le Rive. La giornata era un po’ “muffosa”, il cielo bigio, ma l’atmosfera era vivace, allegra, complice anche un’ottima colonna sonora proveniente dal camioncino degli organizzatori che faceva da “apripista” (complimenti per la scelta dei brani). Arrivo nella piazza affacciata sul mare più grande d’Europa (o del mondo? Della Galassia?), la nostra piazza Unità, vanto e orgoglio dei triestini DOC e di quelli, come me, che lo sono diventati per eccessiva permanenza… Nota di chiusura: al momento degli interventi, dall’improvvisato palco del camioncino, dei rappresentanti delle associazioni, un paio di esponenti politici locali hanno cercato disperatamente di mettere il cappello sulla manifestazione: alla frase “se sarò sindaco, allora io….”, rimozione immediata del microfono e coro di fischi da curva sud. 'A bello de casa, allora non capisci l’italiano. Ocio, questo è solo l’inizio.

lunedì 1 febbraio 2016

Cinque anni sti cazzi!

Cinque anni. Sono passati cinque anni dal piu` crudele dei giorni in cui Grazia e` morta, uccisa dalla notizia di avere il cancro al seno. Cinque anni dall'asportazione di un pezzo del suo seno destro e dei suoi linfonodi ascellari. Cinque anni dalle chemio, la radio, l'Herceptin, l'inizio della terapia ormonale.
Ho fatto i controlli questa settimana. Non sembra ci sia nulla di rilevante. Oggi pomeriggio vedro` la mia oncologa e pianificheremo il prosieguo delle terapie. Ma come? Sono passati cinque anni e continui le terapie? Si, perche` per i carcinomi estrogeno-responsivi come il mio il rischio di recidiva va ben oltre il quinquennio. Lo conferma uno studio pubblicato da poche settimane sul Journal of Clinical Oncology e il cui primo autore e` Marco Colleoni, senologo medico presso l'Istituto Europeo di Oncologia [qui]. Chiedero` alla mia oncologa di girarmi l'articolo di Colleoni e colleghi in modo da poterlo leggere interamente, ma l'abstract non lascia spazio a molti dubbi. Nelle pazienti con carcinomi estrogeno-dipendenti il rischio di recidiva rimane "elevato e piuttosto stabile oltre i 10 anni, anche in assenza di coinvolgimento linfonoidale [...] o nei casi in cui siano coinvolti da 1 a 3 linfonodi [...]". Le conclusioni riportate nell'abstract sottolineano la necessita` di mettere a punto strategie terapeutiche prolungate per questa categoria di pazienti.
Saro` in grado di fornire maggiori dettagli dopo aver letto l'articolo. Nel frattempo, il grido di battaglia odierno e` : "cinque anni, sti cazzi!"

domenica 17 gennaio 2016

Se Jose fosse stato Josefa. Amore e malattia nell'Italia di oggi

Quando mi sono ammalata di cancro vivevo in Inghilterra insieme al mio compagno, Jose. Ricevuta la diagnosi e recuperati da mia madre fiondatasi nella perfida Albione per non lasciarmi nemmeno un attimo, come sempre nei momenti difficili della mia vita, ci siamo recati in Italia per l'intervento, la chemio, la radio, gli anticorpi monoclonali. Jose era disoccupato all'epoca. Non c'e` stato dunque bisogno per lui di chiedere permessi da un lavoro che non aveva. Non mi ha lasciata un attimo. Mi portava al parco a prendere aria fresca la mattina. Preparava la zuppa di miso per me, lui e quel golosone di mio padre. Lui e papa` non ne avevano alcun bisogno, la mangiavano per vizio. A me placava i bruciori di stomaco, consentendomi di proseguire con il resto della cena. Mi accompagnava a fare le chemio a Milano. Si partiva il giorno prima. Dopo la pera si rimaneva in albergo con una bacinella vicino al letto "che` se sporchiamo, magari ci cacciano e togli quei pistacchi che mi danno una nausea...". La mattina successiva si ripartiva. Dopo il quarto ciclo, il peggiore, quando non mangiavo piu` e avevo la febbre alta, Jose mi serviva delle buonissime macedonie innaffiate da spremuta d'arancia. Spremeva le arance come fossero limoni, con una forza che nemmeno Mastrolindo. La frutta scendeva lungo la mia gola infuocata, gettandovi i semi della rinascita che Jose, insieme a me, tanto agognava.
Immaginiamo che Jose avesse un lavoro. In Italia. E che invece di Jose fosse stato Josefa. Una donna. Innamorata di un'altra donna, io. Josefa e Grazia. E Grazia ha il cancro. E deve operarsi e fare la chemio. E sta malissimo. Ma Josefa dal lavoro non si puo` assentare, perche` lei e Grazia e il loro amore per la legge italiana non esistono. Grazia a Milano ci deve andare da sola. I suoi genitori sono anziani e hanno gia` parecchi acciacchi. In ospedale nessuno le tiene la mano, mentre il veleno della chemio le scende nelle vene e colora istantaneamente la sua pipi` di rosso. In albergo, dopo la pera, manca la bacinella che ha posizionato vicino al letto e vomita sul pavimento. La pressione le scende e la vergogna le sale. Pulisce tutto da sola, tra le lacrime e le ginocchia che le tremano. Vorrebbe Josefa vicina, ma lei non c'e`, perche` dal lavoro non si puo` assentare. Perche` per la legge italiana Grazia e Josefa e il loro amore non esistono. Il giorno dopo si rimette in treno da sola, la faccia grigia e la testa pelata. Vorrebbe riposare un po`, appoggiando la testa sulla spalla di Josefa, che per farla stare piu` comoda si avvolge intorno una sciarpa tra la clavicola e l'omero, ma il posto accanto a lei e` occupato da uno sconosciuto. Josefa e` al lavoro perche` lei e Grazia e il loro amore per la legge italiana non esistono.
Leggo la storia di Marina e Laura e mi viene da piangere [qui]. Laura e Marina sono una coppia. Laura ha il cancro, ma Marina deve fare i salti mortali per starle vicina perche` lei e Laura e il loro amore per la legge italiana non esistono. Fa proprio schifo, la legge italiana. Mi fa vomitare piu` dei pistacchi e della chemio. Laura e Marina le vorrei poter abbracciare e da qui possa giungere loro il mio "sono con voi".

martedì 12 gennaio 2016

Holley Kitchen




Il suo video sulla realta` del cancro al seno metastatico ha fatto il giro del mondo nel giugno del 2015. E lei non se lo aspettava di certo. Poco prima di mettersi a cenare con la sua famiglia, marito e due bambini di nove e 4 anni, nella loro casa di Cedar Park, in Texas, Holley Kitchen, chiusa nella sua camera da letto e armata di iPad e bigliettini, e` riuscita a condensare cio` che occorre sapere sul cancro al seno metastatico che l'aveva colpita, a distanza di poco tempo dalla prima diagnosi, a soli 40 anni e dopo una doppia mastectomia, chemio, radio e ormonoterapia. Caricato su Facebook il video, Holley e` tornata dai suoi cari per scoprire, dopo cena, che in poco meno di mezz'ora era stato visto da cinque mila persone.
Ad oggi le visualizzazioni sono oltre cinquantuno milioni [qui]. Oggi pero` Holley non c'e` piu`. E` morta. A nulla sono serviti gli sforzi per prolungarne la vita, incluso l'arruolamento in uno studio clinico. Qualche giorno fa aveva raccontato sulla sua pagina Facebook che le sue precarie condizioni di salute non le consentivano di proseguire la chemioterapia e che il suo nuovo obiettivo era riuscire a vedere il suo figlio piu` piccolo compiere 5 anni tra 5 settimane [qui]. Non ha fatto in tempo.
Holley non sapeva cosa fosse il cancro al seno metastatico quando si era ammalata. Pensava che la doppia mastectomia l'avrebbe protetta dal cancro al seno per sempre. Quando le era stato comunicato che la malattia si era diffusa aveva pensato si trattasse di un nuovo cancro. Le era stato spiegato che si trattava sempre dello stesso cancro al seno, localizzato alle ossa questa volta, e che le terapie sarebbero terminate solo con la sua morte.
Non c'e` cura per il cancro al seno metastatico, spiega Holley nel video, e le persone non vogliono parlarne perche` fa paura. Il suo intento era farne conoscere l'esistenza e smuovere le coscienze sulla necessita` di trovare delle soluzioni terapeutiche adeguate per le migliaia di donne e uomini che ne sono colpiti e che, aveva scritto su uno dei bigliettini, "sono piu` di un grazioso nastro rosa".

lunedì 11 gennaio 2016

David Bowie

E` stato forse durante il secondo anno di dottorato che il mio compagno pazzo e amatissimo ha scaricato la discografia completa di David Bowie. Fino ad allora avevo ascoltato, ripetutamente, solo Ziggy Stardust e, come molti della mia generazione, pensavo che The Man Who Sold the World fosse uno splendido pezzo dei Nirvana.
David Bowie e` stato la colonna sonora del mio dottorato. Dovunque andassi - all'universita`, a Torino per archivi e biblioteche, a conferenze, a fare interviste, a bere il mochaccino al bar con il mio amico del cuore - Love You Till Tuesday, When I Live My Dreams e molte altre canzoni del Duca stavano sparate a palla nelle mie orecchie.
Quella vita, come chi segue questo blog sa, e` finita quando mi sono ammalata di cancro. Le canzoni che l'avevano allietata le ho dovute dimenticare. Oggi che il cancro maledetto si e` portato via pure David Bowie le sto riascoltando, per la prima volta.
Cio` che voglio condividere con voi, pero`, e` il video di una canzone inclusa nell'ultimo album di inediti uscito solo qualche giorno fa. La canzone si chiama Lazarus e cosa debba averla ispirata e` ormai tristemente chiaro.
"Oh, I'll be free", canta Bowie. Libero dal cancro, dalle terapie che devastano quanto la malattia, dal mondo infame che continua a voltarsi dall'altra parte.